A Èze ci siamo andate che era gennaio – io &
Tabby Cat, ma era un po’ come se fosse primavera, e questa escapade in Costa Azzurra era diventata anche una sorta di fuga
dall’inverno, dal freddo nelle ossa, dai pensieri bui. Èze è stata una
decisione estemporanea: ce l’ha suggerito la mia amica Monica, che siamo andate
a trovare a Mentone il giorno prima – è un nido d’aquila, ci ha detto, è una
chicca medievale. “Nido d’aquila” non
l’ho mai sentito dire, mi fa venire in mente un film, ma non un film vero – un
film che mi sono inventata io adesso sul momento, una specie di mix fra “Là dove osano le aquile” e “Qualcuno volò sul nido del cuculo”: e
lo sappiamo tutti benissimo che i cuculi non fanno il nido ma vanno a
depositare il loro uovo nel nido di altri uccelli – e se fosse stato proprio un
cuculo ad osare avvicinarsi ad un nido di aquila? E come crescerebbe un cuculo,
che è un uccello abbastanza bruttino e sgraziato, se venisse allevato da delle
aquile? Magari complessato, o, magari, al contrario, se i suoi genitori aquila
gli avessero pompato l’autostima all’inverosimile, facendogli credere di essere
un’aquila anche lui, sarebbe diventato uno di quei personaggi insopportabili
che si atteggiano molto al di sopra della loro reale sostanza. Insomma, ne
verrebbe fuori un film bellissimo – una sorta di antitesi ai libri di Anthony
De Mello: niente aquile che si credono polli, solo cuculi che si credono
aquile.
Ma come al solito sto divagando: volevo solo dire
che questa cosa del nido d’aquila, anche se non mi è del tutto chiara, mi ispirava;
quella della chicca medievale invece mi è chiarissima, e mi ispira pure quella,
anzi, a dire il vero di chicche medievali ne faccio proprio collezione – e
anche il nome palindromo mi affascina. E – Z – E. Potrebbe quasi sembrare il
diminutivo di Ezechiele, ma per fortuna in francese si pronuncia ézs; quindi evita di farmi venire in
mente anche il lupo dei Tre Porcellini Disney. Palindromo e con una zeta in
mezzo, quasi fosse una sorta di Zorro medievale. Con un copricapo ricoperto di
piume d’aquila, ovviamente.
Quindi niente, siamo qui.
“Ma cosa
vorrà dire che è un nido d’aquila?”
“No,
niente, lascia stare”
“Cioè? È
una cosa strana?”
“No, no, è
che è meglio non pensarci”
È che in realtà non ho ancora deciso se il cuculo
allevato dalle aquile avrà l’autostima latente oppure debordante. Ci sono
risvolti psicologici interessanti in entrambi i casi. Forse potrei metterci due
cuculi, anziché uno solo. Due gemelli diversi, uno perennemente convinto di non
essere mai all’altezza della sua famiglia di aquile; l’altro che si guarda allo
specchio e si vede anche lui maestoso e con il becco a rostro anziché goffo e
spelacchiato.
Del resto anche Èze in realtà è doppia. Per poter
raggiungere il nido d’aquila si deve prima arrivare a Èze-Bord-de-Mer, che, come dice il nome, è il suo sbocco sul mare.
È un po’ come se le aquile si fossero stufate di guardarlo sempre solo da
lassù, e avessero deciso di volerci bagnare anche un po’ i piedi. Cioè, le
zampe, ovviamente – e si sono costruite questa sorta di dependance che collega il loro nido con le acque turchesi della
Costa Azzurra. La strada di collegamento in realtà è abbastanza lunga e
tortuosa, ma, se sei un’aquila, è solo un battito d’ali.
Se sei un cuculo, anche. Al massimo un paio di
battiti in più.
Noi, tuttavia, non siamo né aquile né cuculi,
quindi, dopo essere scappate a salutare il mare sulla spiaggia sassosa del
Bord, abbracciandolo idealmente, a braccia spalancate, lui, il suo orizzonte, i
suoi riflessi smeraldini e la sua brezza alla salsedine, e dopo esserci dette “Massì, chissenefrega se non siamo ai
Caraibi, siamo qui, con le aquile palindrome e gli Zorri medievali, è tutto
bellissimo, cosa vuoi di più?” (un cuculo, non dimentichiamoci dei cuculi)
– dopo questa dichiarazione d’amore per il mare e per Èze, ci siamo messe a
cercare di capire come raggiungere il villaggio medievale sul cucuzzolo della
montagna.
Raccattiamo un po’ di depliants dall’Ufficio del Turismo, e in uno di questi si dice
anche che Èze è un “villaggio perché”
– che in francese significa qualcosa del tipo “arroccato”, ma siccome il
depliant è scritto in italiano io lì per lì lo leggo nella nostra lingua, e
rimango per qualche istante sospesa, aspettandomi che mi vengano elencati i
motivi per cui è un villaggio.
“Èze è un villaggio perché…”?
Perché non è una città. Perché è un agglomerato
urbano di piccole dimensioni. Perché così ha deciso di essere, punto. Ci dovrà
ben essere qualche motivazione, dal momento che viene posta la questione. Mi
aspetto quasi di veder comparire un figurante travestito da Zorro o da aquila
che me li elenchi questi motivi, magari cantando come in un musical
hollywoodiano.
E invece no – non c’è nessun motivo, e non perché
Èze sia in crisi esistenziale (anche se questo darebbe ulteriore succo alla
trama del mio film); ma semplicemente perché è un false friend, e il mio cervello si deve essere vendicato di quella
volta che, in gita al liceo, in un autogrill francese non volevano darmi una
rustichella perché io lo pronunciavo all’italiana, com’era giusto che fosse, ma
loro si aspettavano di sentire rustiscellà
– e non capivano. Come se noi lo champagne lo pronunciassimo campagne anziché sciampagn.
In realtà in tutta questa storia, se vogliamo, un
perché c’è – ed è il seguente.
Ora – per salire ad Èze Village partendo da
Bord-de-Mer, volendo c’è una comoda navetta, che si prende di fronte alla
stazione ferroviaria e, dopo circa dieci minuti, zigzagando per la strada che
han fatto fare i cuculi, ti scarica davanti alla porta d’ingresso del villaggio
fortificato.
E, va bene, noi non siamo a favore delle opzioni
facili – e questo assioma potrei declinarlo in lunghissime ed articolate
dissertazioni, che tuttavia vi risparmio adesso perché ho intenzione di
inserirle nei dialoghi del film.
Volendo salire a piedi, che sarà anche un’opzione
un po’ masochista, perché, come potrà suggerire il nome stesso, il nido
dell’aquila si trova parecchio in alto – ma che, come spesso accade con le cose
che richiedono fatica e sudore, viene anche ricompensata con abbondanti
panorami stupendi ed un certo grado di soddisfazione, si può scegliere il Sentiero di Nietzsche. Si tratta di una
stradina sterrata che si inerpica su per il costone della montagna, e che non
si chiama così perché per sceglierla si debba essere superuomini (o superdonne
– o aquile); ma proprio perché fu un percorso scelto e prediletto da Friedrich
Nietzsche in persona – e non solo: pare che fu proprio durante questa
scarpinata che trovò l’ispirazione per scrivere la terza parte di “Così parlò Zarathustra”. Quando si parla
di conseguenze costruttive della fatica, in effetti, c’è anche questo, in
effetti: riflessione, analisi, e, anche se non puoi arrivare a partorire uno
dei pilastri della filosofia moderna, magari puoi comunque giungere a
consapevolezze utili.
Ma no – noi non scegliamo nemmeno il Sentiero di
Nietzsche. Sarà perché, se un giorno per caso qualcuno all’Ente per il Turismo
della Costa Azzurra sarà talmente disperato da decidere di provare ad attirare
più gente raccontando che qui ho trovato ispirazione per scrivere la
sceneggiatura del mio film sui cuculi, so già che comunque non sarei in grado
di scalzare Nietzsche dal nome di questo sentiero; quindi?
Quindi ce ne andiamo su per la strada normale –
quella che in teoria fa la comoda navetta che non abbiamo voglia di aspettare,
e che del resto rappresenta un’opzione troppo scontata se hai una sceneggiatura
cinematografica a cui dover pensare.
No, in realtà non c’è un motivo valido e sensato
per cui abbiamo fatto questa scelta – come tutte le cose stupide che si fanno
nella vita, semplicemente si fanno, succedono. Poi, ecco, a volte le cose
stupide si rivelano anche belle, a modo loro; ma questa mi sa che era solo
puramente stupida – fondamentalmente perché la “strada normale” per lunghi
tratti non ha il marciapiede, quindi sicuramente è un’alternativa che non
consiglio. E alla fine non sono nemmeno riuscita a pensare in maniera troppo
dettagliata al mio film scemo sui cuculi, perché ero troppo impegnata a tenere
a bada l’ansia di venir impietosamente investite da qualche macchina ad ogni
tornante – nonostante Tabby Cat si sforzasse egregiamente di smorzarla,
dicendomi che la mia ombra somigliava a quella di Batman, dal momento che avevo
deciso che, se proprio dovevo morire, almeno avrei voluto essere seppellita con
il mio berretto con le orecchie da gatto.
Ma, alla fine, nessuno ci investe, socializziamo
persino con un gruppetto di monsieurs
che stavano giocando a bocce, e, dopo circa un’ora e mezza durata più o meno
un’eternità – eccolo, vediamo comparire all’orizzonte il nido d’aquila,
abbarbicato sul cucuzzolo di fronte a noi.
Sembra quasi uscito da un film fantasy ambientato
nell’epoca pseudo-medievale di un qualche universo parallelo, e in effetti non
so come mai non mi sia venuto in mente prima Il Trono di Spade; oppure sembra che la montagna stia indossando un
curioso cappello fatto di casette di pietra – che sicuramente farebbe un
figurone al Palio di Ascott, se solo le montagne vi fossero invitate.
Vaghiamo per i suoi vicoletti in salita – e devo
ammettere che, anche se io sono ben lungi dall’essere un’aquila, è un posto che
non mi dispiacerebbe affatto avere come nido: è intimo ma solido, racchiuso fra
le sue robusta mura che risalgono all’età del bronzo e che hanno resistito a
svariati attacchi saraceni; è un labirinto di viuzze di pietra e case rivestite
di fiori che s’inerpica intrecciandosi – meandri che appaiono casuali ma che
hanno una loro armonia, un loro segreto susseguirsi che rivela di tanto in
tanto angoli di bellezza semplice, baciati dal sole, curati con amorevole
dedizione.
Per me i dettagli fanno sempre la differenza, e
la farebbero sicuramente anche in un nido – o in una di queste chicche di
villaggi in cui il tempo si ferma e la bellezza si coltiva, che amo
collezionare girando per il mondo.
Qui i dettagli sono di pietra e di ferro battuto
– elementi che nascono aspri, che servono per combattere o per difendersi, ma
che sono stati ingentiliti, trasformati in qualcosa di più gentile, di più
confortevole, come il tipo di cose che vorresti trovare in un nido. È un posto
più per persone riflessive e per artisti, che non per rapaci o per Zorri
guerrieri – ma probabilmente anche loro cercano un momento di pace, e, quando
ne hanno bisogno, è qua che si rifugiano.
Ci sono negozi di artigianato, atelier, vetro
soffiato, bouganvillee che si inerpicano sopra la pietra, che le danno un tocco
aggraziato – oppure foglie di vite rossastre, che la rendono più malinconica.
Qualche foto esposta in un locale ci fa sapere
che fra gli artisti che si sono innamorati di questo grazioso scrigno di pietra
ci sono anche gli U2: The Edge ha scelto il paesino come location per il suo
matrimonio nel 2002; e Bono non ha voluto essere da meno, acquistando una villa
giù a Bord. Chissà se hanno trovato anche loro ispirazione per qualche brano da
queste parti. Spero solo non percorrendo la strada normale – altrimenti mi fregano
l’esclusiva.
C’è una piccola cappella risalente al XIV secolo
ed edificata come ex voto per la fine dell’epidemia di peste: è dedicata ai
Penitenti Bianchi, un ordine laico che portava assistenza fin quassù – ma la
sua particolarità è che all’interno ostenta una croce egizia. C’è questo
mistero sulle origini di Èze – perché il suo nome latino in effetti è Isia, quindi, più che Zorro, pare centri
la dea Iside. L’ipotesi è che proprio in questo punto i Fenici avessero
costruito un tempio in suo onore – e questa cosa mi affascina parecchio, perché
Iside era una dea con i controfiocchi: a parte rappresentare il principio
femminile e la fertilità, era anche protettrice della saggezza e della magia,
intesa come potere di convogliare le energie nel verso giusto – cosa che,
personalmente, non sono mai in grado di fare, quindi un rapido tutorial da
parte sua non mi dispiacerebbe. Peraltro, nell’iconografia tradizionale, Iside
viene spesso rappresentata anche come falco – quindi, forse, il nido è suo,
abbiamo sbagliato rapace. E lo Zorro medievale – beh, magari era in realtà una
guerriera donna.
La salita prosegue – e ci rivela il motto del
villaggio, “Moriendo Renascor”, che
mi fa venire in mente una fenice.
E, a questo punto, il nido comincerebbe ad essere
un po’ troppo affollato di volatili – non fosse che anche Iside, in realtà, è
collegata al concetto di rinascita, dal momento che, grazie alla sua sapienza
ed alle sue arti, fu in grado di far risorgere il marito Osiride, morto
annegato nel Nilo in seguito ad un complotto del fratello. Ve l’avevo detto che
Iside era una superdea – e anche su questo argomento mi piacerebbe poter avere
un tutorial da parte sua; ovviamente intendendo questa cosa del “far rinascere”
più come una metafora e non in senso puramente letterale, eh.
O forse sarebbe più saggio cercare un tutorial
per guarire dalla Sindrome della Crocerossina – ma cambiamo argomento, che è
meglio.
Magari inserirò anche questo nel film dei cuculi.
Sulla cima del nido un tempo c’era un castello –
adesso ne sono rimaste solamente le rovine, ma tutto intorno è stato costruito
un ricchissimo giardino esotico, opera dell’ingegnere agronomo Jean Gastaud,
che negli anni ’50 fece qualcosa di simile anche a Monaco.
L’ingresso al giardino è a pagamento ma vale
assolutamente il prezzo del biglietto. Prima cosa perché alla guardiola della
biglietteria c’è un gatto nero guercio – socievole ed affabile come tutti i
gatti neri che hanno un’attività commerciale (i gatti neri, forse lo sapete
anche voi, oltre ad avere la vocazione da marinai e da intellettuali, hanno
anche quella di contatto con il pubblico).
Il secondo motivo è la varietà di piante esotiche
e, in parte, mediterranee, che si arrampicano lungo questo ultimo pezzo di
salita del nido: ci sono circa un centinaio di specie diverse di succulente –
agavi, aloe, cactus, euforbie. La vegetazione è curata nei dettagli ed è
protetta dalla presenza eterea delle sculture longilinee ed ascetiche di Jean
Philippe Richard, che spuntano qua e là in mezzo alle piante e che
rappresentano le dee della Terra: ovviamente c’è anche Iside – ma da sola si annoiava
un po’, quindi ha chiamato qualche amica a farle compagnia. Ora non c’è più bisogno
di trasformarsi in Zorro e combattere – è il momento della pace, perché la saggezza
si alimenta anche con la contemplazione. Iside lo sapeva, e anche Nietzsche e gli
U2 lo confermano.
E questo è il terzo motivo.
Questo balcone sull’azzurro, che abbraccia i monti
dell’Esterel fino al golfo di Saint-Tropez – ma che sembra espandersi molto oltre,
più avanti, verso un orizzonte che non finisce mai. Le dee guardano lontano, le
piante fanno da cornice -le aquile, o i falchi, o le fenici, forse si riposano,
ma, anche se lo fanno, volano con la mente, vanno in posti in cui il tempo e lo
spazio non ti possono portare.
E, mentre provo anche io a spostare lo sguardo da
quella parte, penso che in fin dei conti non importa se i miei cuculi abbiano o
meno problemi di autostima o di identità – perché, mentre guardano tutto questo,
per qualche attimo se lo dimenticano.
Una splendida descrizione di questo incantevole e magico luogo.
RispondiEliminaGrazie :)
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