Conoscete i Nanowar of Steel ? Sono un gruppo metal italiano, dalle sonorità power metal anni ’80 e dai testi brillantemente demenziali: f...

Bayahibe - un Gatto Nero (vikingo) ai Caraibi Bayahibe - un Gatto Nero (vikingo) ai Caraibi

Bayahibe - un Gatto Nero (vikingo) ai Caraibi

Bayahibe - un Gatto Nero (vikingo) ai Caraibi

 


Conoscete i Nanowar of Steel? Sono un gruppo metal italiano, dalle sonorità power metal anni ’80 e dai testi brillantemente demenziali: fanno geniali parodie di brani metallari di grande successo, mescolando con abile sarcasmo tutti i cliché del genere. Di recente si sono anche lanciati in qualche commistione, facendo satira anche su altri generi musical: “Norwegian reggaeton” mischia gli stereotipi della musica caraibica con quelli del metal scandinavo, ipotizzando come si potrebbe trovare un cuore dark, amante delle tenebre e delle atmosfere fredde e malinconiche, in vacanza in un paradiso tropicale dove il divertimento è d’obbligo e tutti si dimenano in spiaggia al ritmo della rumba fino al mattino. Beh, in realtà, a quanto pare, il nostro eroico metallaro non si troverebbe poi tanto male, stando alla loro versione dei fatti, ma si lancerebbe in un ammirevole tentativo di integrazione che sfocia in un curioso mix di vida loca, tombe profanate, foche e rumba.




“Corazon vikingo de Santo Domingo” – sproloquia il ritornello, che entra subito in testa come tutto ciò che non dovrebbe, e non ti molla più. “Sarò anch’io così” mi sono sempre detta “se mai finirò per andare in vacanza ai Caraibi”. E questa, lo ammetto, è una cosa che, se, non troppi anni fa, mi avessero detto che avrei finito per fare, sarei scoppiata a ridere. Sai quelle cose che, quando sei ancora giovane e piena di illusioni su te stessa ed il mondo, sei pronta a scommettere, con un forte margine di certezza, che mai e poi mai ti ritroverai a fare nella vita? Tipo, che so – sposare uno che tifa Toro. O indossare un vestito leopardato per sentirti più sexy. O addormentarti sul divano il sabato sera mentre guardi Maria De Filippi. Ecco, va bene – io non ho ancora fatto nulla di tutto questo: però sono andata in vacanza ai Caraibi, e, se lo avessi detto alla me stessa del 2010, spiattellandole in faccia che mi è anche piaciuto, credo che mi avrebbe fissata inorridita. Ora, non fraintendetemi: non è che le spiagge bianchissime, le acque turchesi e le palme accarezzate dalla brezza mi abbiano mai fatto schifo – non sono una talebana dello sturm und drang. Però, ecco – diciamo che ho sempre privilegiato le mete più nordiche, i paesaggi più aspri e il girovagare senza sosta in cerca di bellezza malinconica.

Sto forse invecchiando male?

Probabile. Ma, a mia parziale discolpa, c’è anche la deformazione professionale: lavorare tutto il giorno circondati da gigantografie di spiagge candide e deserte, sfogliando cataloghi ricolmi di mari cristallini e sentendo parlare continuamente di posti dai nomi esotici, scioglierebbe qualsiasi cuore vichingo. Voglio dire, anche se sei una salutista indefessa che si nutre solo di tofu e broccoli, se lavori in Ferrero, la tentazione di intingere una volta nella vita il dito in un barattolo di Nutella da 1 kg può non venirti? Si tratta anche di serietà professionale: bisogna testare con mano la bontà di ciò che si vende. E poi ciò che conta, in un viaggio, non è tanto dove si va, ma come lo si vive, il saper trovare la propria giusta declinazione anche in un ambiente apparentemente all’opposto di ciò che normalmente cerchiamo. Proprio come i metallari di Norwegian Reggaeton.

Ok, lo so – non ci credete.

Diciamo che ho scoperto che non mi dispiace fuggire al caldo quando qui si gela, lo confesso. La vecchiaia, che volete.

Corazon Vikingo de Santo Domingo.

 


Quindi eccomi qua, a camminare sulla spiaggia di Bayahibe, Repubblica Dominicana, una mattina di metà gennaio, con il sole che si sta ancora stiracchiando un po’ assonnato e pochissima gente nei dintorni.

La sveglia all’alba senza fatica è uno dei benefit di quando si viaggia verso ovest, perlomeno dei primi giorni, finché non passa l’effetto del jet lag. Il 2020 è appena cominciato, e io ho diversi progetti di viaggio per quest’anno: questo è nato un po’ per caso, come compensazione delle vacanze di Natale che non ho fatto, e come parentesi di relax in un periodo di carichi lavorativi di dimensioni extra large. Di solito io non so molto brava a rilassarmi, ma questa volta ho deciso di volerci provare. Oggi mi ricordo un dettaglio di quel volo: il commento di un passeggero sul fatto che gli schermi del nostro aereo avesse le scritte in mandarino, timoroso che, prima di trasportare noi ai Caraibi, fosse transitato in Cina e che si fosse portato appresso “quel virus che c’è là”. Forse sul momento mi aveva fatto un po’ sorridere, non saprei. Di sicuro non ci stavo pensando mentre camminavo sulla spiaggia all’alba, con il mare che non era ancora cristallino ma color argento, e le palme in lontananza che erano solo delle sagome nere. Però, oggi, con il senno di poi, me lo ricordo. Ripenso a tutti i progetti, di viaggio e non solo, che mi ero puntellata mentalmente nei mesi successivi per usarli come traguardi in un anno che si prospettava impegnativo e faticoso, e che invece sarebbe stato – beh, ecco, sicuramente non facile, anche se per motivi completamente diversi. La vita è quello che accade mentre noi facciamo progetti – diceva qualche saggio. E questo sarebbe stato il mio unico viaggio all’estero del 2020. L’ultimo per parecchio tempo.

Ma non lo sapevo.


Adesso che lo so, però, ci volevo tornare con la mente – ad affondare i piedi nella sabbia sottile come borotalco, nella prima mattina a Bayahibe, quando tutto il mondo intorno stava ancora dormendo, il sipario doveva ancora alzarsi e le aspettative di quello che sarebbe stato erano ancora astratte ed indicative, come quelle sagome nere in lontananza ci indicano che appartengono a delle palme ma non ci fanno percepire realmente i colori, la consistenza ed i dettagli dei loro tronchi e delle foglie.

Bayahibe quando dorme ha un mare color argento, non ancora turchino Caraibi, e il cielo da lontano si stiracchia fra colori tenui, rosati.

C’è ancora silenzio, ma durerà per poco.


La spiaggia di Bayahibe è un nastro bianco che si snoda per chilometri – e una buona parte di essi è occupata da resort giganteschi, uno di fianco all’altro con le loro file di lettini, i ragazzi del bar che fanno la spola con i vassoi colmi di cocktail, gli animatori che ti invitano a fare la lotta nella schiuma, la musica a palla. Reggaeton, ovviamente. Ma dominicano, non norvegese.


Una versione caraibica di Rimini. Ma è grazie a questo che sono qui: quasi tutti questi resort sono commercializzati sul mercato italiano da noi. Quando li studio sulla carta, e gli assegno forecast di riempimento e statistiche di vendita, ammetto, me li confondo sempre un po’: nel nome hanno tutti la parola “Dominicus”, abbinata a qualcos’altro – decine di varianti della stessa ricetta, un po’ come si dice che i brasiliani abbiano cento modi diversi di cucinare il baccalà. Ora che sono qui a passeggiare sulla loro spiaggia, forse avrò finalmente modo di conoscerli e distinguerli – anche se, alla fine, credo di essere riuscita a memorizzare solo la sequenza con cui sono posizionati lungo la sconfinata striscia di sabbia bianca.

I tratti di spiaggia occupati dai resort sono rialzati, e i lettini arrivano fin quasi dirimpetto al mare: per camminarci o passi nell’acqua, o ti inerpichi in salita sulla costa della piccola duna artificiale creata a protezione delle spiagge private.


Ma tutto ha una fine, anche il susseguirsi meccanico di strutture all inclusive, musica ritmata (ed un po’ insensata) a tutto volume, animatori scatenati, turisti abbronzati, divertimento obbligatorio: il mio istinto asociale ha la meglio, e, come succede agli hobbit nel “Signore degli Anelli”, che, quando cominciano a mettere i piedi l’uno davanti all’altro poi non sanno mai dove vanno a finire, a forza di camminare riesco a lasciarmi alle spalle la movida ed il rumore e a ritrovarmi in un tratto di spiaggia completamente deserto e selvaggio.


Anzi, in un lungo tratto di spiaggia: interi kilometri senza un essere umano (escludendo quei pochi per cui, come me, il concetto di “relax” si declina in realtà in silenziosa pace e movimento per le gambe), ma con abbondanza di palme, acque turchesi che si infrangono sulle rocce spugnose, sabbia simile al borotalco e conchiglie colorate. L’apoteosi della bellezza caraibica.


Ad ogni passo ci sono dettagli diversi da osservare: agglomerati di sassi, coralli, alghe rossastre e ricci di mare bruni, raggruppati insieme in piccole conche come se fossero scrigni del tesoro; le sfumature diverse ed oniriche dell’acqua, a tratti trasparente, a tratti più torbida, che si declina in tonalità sempre più scure man mano che ci si allontana verso l’orizzonte; le onde che si insinuano fra i piccoli anfratti delle rocce, scavati dal vento e dal sale come fossero grotte in miniatura, o ricami sapienti, e il ritmo costante del mare li suona come se fossero una ninna nanna, o una canzone d’amore; tronchi caduti in acqua, morti, ma al tempo stesso riportati ad una seconda vita dall’oceano, lisciati, sbiancati, scolpiti, che riaffiorano a pelo della superficie turchese come antichi mostri marini, creature provenienti dall’abisso ma emerse per contemplare la bellezza, l’infinito; conchiglie preziose, barche attraccate lontano, verso l’orizzonte, pellicani appollaiati sulla cima delle palme, scheletri di coralli anneriti che sembrano ventagli funebri di pizzo.


Mi siedo su un tronco abbandonato, ad assaporare meglio quel che mi circonda. La sensazione di pace che si ha quando ci si immerge nel dominio della natura è totalizzante perché è come se ci si annullasse, di fronte a qualcosa di più grande e più potente di noi, ma al tempo stesso illumina la consapevolezza di farne parte – di avere qualcosa, dentro di noi, la nostra parte più antica e profonda, che è fatta della stessa sostanza di tutta questa bellezza, di tutta questa meraviglia. È qualcosa di selvaggio, allo stato brado, ma al tempo stesso con una sua armonia, un suo equilibrio, che lo rendono autosussistente, un microcosmo che sa crearsi da solo tutto quello di cui ha bisogno, che ha in sé stesso la chiave univoca della propria felicità.


Come il mare, anche il cielo ha mille sfumature, che si distinguono per i toni più decisi e per le striature candide delle nuvole, che si dipanano come lunghe strisce di cotone sfilacciato. Quando il sole comincia la sua lenta discesa dietro l’orizzonte, il mondo intorno assume tinte più preziose, incastonate di un baluginio d’oro: i chiaroscuri si fanno più marcati, le ombre di cose ed animali si allungano – le sagome umane in lontananza si stagliano nere contro l’infinito del mare, che di nuovo non è più azzurro ma diventa misterioso come metallo.


E, davanti a tutto questo splendore, il mio corazon vikingo accenna pure lui a qualche nota di reggaeton: perché, del resto, la cosa più importante che viaggiare mi ha insegnato è che, in tutte le cose diverse che potrai mai incontrare in giro per il mondo, se guardi bene, se sai aprire gli occhi e un po' anche il cuore, riuscirai sempre a ritrovare qualcosa che ti somiglia.



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