È questo quello che sto pensando in questo
caldissimo pomeriggio di metà agosto mentre sono seduta di fronte al Duomo, sui
gradoni di pietra di Santa Maria, riparata da un filo d’ombra sottile quanto
basta, con una bottiglietta d’acqua ghiacciata che mi sto scolando senza
dignità, in attesa di Ginger Cat e delle altre nostre due compagne di viaggio.
Il sole è forte ma non mi dispiace, sa di vita e sa di cose che è bello poter
cogliere nonostante tutto. La pietra è fresca, liscia ed antica, il cielo
incredibilmente azzurro. Sento il vociare in lontananza dei turisti, il
fruttivendolo che dispensa pesche e fragole. Mi guardo attorno e mi gusto i
dettagli come se fossero un pezzetto di cioccolato, li faccio scivolare fra le
dita come sassolini – mi diverto a scovare le cose che nessuno nota, le
trattengo come se fossero tesori, come se fossero soltanto mie: gli angeli con
le ali nera sulla facciata del Duomo, che si nascondono fra i marmi rosa e le
gargolle; i cinghiali di peluche nella bancarella dei souvenir; una bambina
bionda che corre sulle gradinate. È solo una parentesi, questa di Siena, e le regole
della grammatica vogliono che le parentesi si richiudano presto, però a volte
se ne ha bisogno – di queste parentesi piene di bellezza, che riescono a
nutrirti di qualcosa di buono, di un’energia positiva da incamerare e tenere da
parte per dopo, come fanno gli animali con le scorte di viveri quando vanno in
letargo. Scatto una foto a ciò che ho davanti, alla facciata capolavoro del
Duomo che si staglia perfetta contro un cielo perfetto – perché voglio
ricordarmi di questo istante e della pace che lo accompagna, delle sue
sensazioni e dei suoi dettagli, che sommati creano questo stato prezioso, di
appagamento: so già che sarà questo il souvenir migliore che mi porterò a casa
da questa strana estate – perché la perfezione non è fatta di cose perfette, è fatta
delle cose di cui hai bisogno in quel momento. E Siena, era il mio bisogno –
anche se l’ho capito solo quando ci sono arrivata, quando l’ho girata da sola
al caldo, ripiegando la mappa nella tasca dei jeans e vagando a caso, e poi mi
sono seduta qua, in silenzio, a guardarla negli occhi. Da sole, io e lei.
Anche Siena sarebbe fatta di contraddizioni, ma abbiamo detto che siamo nel 2020 e le contraddizioni non esistono più – quindi diciamo che è fatta di opposti: salite e discese, archi e volte, sacro e profano, luci ed ombre, sante e leggende di magia. Gli opposti si attraggono, dicono, ed è qua che hanno deciso di incontrarsi – su questi tre colli tufacei a metà strada fra la Val d’Orcia e la Val d’Arbia, che ne hanno improntato l’aspetto urbanistico rendendola sinuosa, con vie attorcigliate l’una sull’altra come una chiocciola, con panorami che si aprono all’improvviso svoltando l’angolo, portandoti ad abbracciare con lo sguardo fino alle colline circostanti.
Sono gli opposti che la rendono così bella, Siena – gli opposti, e
il Medioevo. I suoi vicoli tortuosi, i suoi nobili palazzi color mattone, i
suoi angoli inusuali ed i suoi dettagli preziosi sono stati insigniti
dall’Unesco dell’ambito titolo di Patrimonio dell’Umanità dal 1995 – e, se si
vaga per le sue vie, Siena ha il potere di farti trascendere la concezione del
tempo e dello spazio: quello di Siena è un cuore che appartiene ad un’altra
epoca e che, nonostante tutto, riesce a rimanere inalterato; e, al tempo
stesso, come un labirinto magico, è sempre in grado di stupirti, con qualche
dettaglio che ti era sfuggito, con qualche angolo in cui ancora non avevi mai
svoltato. I primi opposti di Siena si trovano nel suo stemma araldico, dove
campeggiano, puri e netti, il colore bianco ed il nero, a ricordare l’eterno
dualismo che sta alla base di tutto, quasi come se fosse un segreto iniziatico.
Su questi colori, ovviamente, c’è una leggenda, che racconta della sua nascita
– mitologica, che si fonde con quella di Roma, ma lo fa in antitesi, quasi come
forma di vendetta: si narra infatti che fu fondata dai figli di Remo, Senio ed
Ascanio, in fuga verso nord dopo che lo zio Romolo ne uccise il padre. Senio si
fermò qui e stabilì le fondamenta per Sena Julia, il primo nucleo dell’attuale
città; mentre Ascanio, che forse era il fratello un po’ meno figo, ma che,
soprattutto, era memore del vizietto di famiglia della competitività, per cui
per i secondogeniti non finisce mai granché bene, fondò la vicina Asciano, come
anagramma del suo nome. Avrebbe anche potuto chiamarla che so, Noscaia o
Scianoa – ma va bene così. E il bianco e il nero? Beh, qualcuno dice che
fossero i colori dei cavalli su cui stavano viaggiando i due fratelli; qualcun
altro quello delle fumate delle due pire celebrative con cui inaugurarono i
loro neonati insediamenti; volendo potremmo anche inventarci che fossero i
colori dei loro mantelli o delle loro mutande – poco cambia. Quello che conta è
la metafora che ci sta dietro – ovvero che si tratti di un simbolo cromatico di
dualismo, di due forze apparentemente opposte ma sinergiche, complementari. E,
soprattutto, questa leggenda ci spiega anche perché rappresentazioni della Lupa
capitolina siano presenti in diversi angoli di Siena: praticamente è sua nonna
– e, in fin dei conti, se lì per lì mi aveva fatto strano questa onnipresenza
del simbolo romano in Toscana, ripensandoci, se Siena fosse stata fondata dai
figli di Tarzan, sarebbe stato ancora più bizzarro. Però attenzione – la
leggenda non ci illustra soltanto un motivo, ma una modalità: Siena non nasce
come succursale di Roma – nasce come alternativa, come atto di ribellione da
parte di chi ne è stato tradito. E forse pone le sue radici nell’epoca in cui
Siena era ghibellina, dalla parte dell’Imperatore nella lotta temporale contro
il Papato: ma Siena raggiunse il massimo del suo splendore come un’entità a sé,
non come antagonista della Città Eterna a lei imparentata. Siena non è mai
diventata un colosso come Roma, e, forse, non ha mai nemmeno mirato
concretamente a diventarlo: è sempre stata una nicchia a suo modo ricca e
potente, uno scrigno di tesori che si è forgiata da sola.
E, oltre alle sue banche, alle sue
ricchezze locali sapientemente trasformate in beni artigianali di elevata
qualità, ai frutti della sua terra, i tesori di Siena sono nei suoi vicoli, nei
suoi cortili, nelle sue ombre in cui si cerca rifugio quando, come oggi, il
sole alza la voce – si trovano alzando il naso a caso mentre si cammina in
salita stretti fra le mura di edifici altissimi, quando si pensa di prendere una
scorciatoia e invece si allunga la strada, quando si decifrano i dettagli delle
decorazioni dei palazzi, e non si sa più se siano angeli o demoni quelli che si
stanno guardando.
Poi c’è un gioiello, fra questi tesori,
che, se Siena fosse una regina, sarebbe probabilmente la corona – ma Siena non
ha mai voluto fare la regina, è più una a cui piace lavorare, per quanto sappia
anche godersi la bellezza della vita e delle sue contraddizioni: per cui,
forse, è meglio dire che Piazza del Campo in realtà sia il suo cuore – anche
perché, due volte all’anno, palpita e si scatena al ritmo degli zoccoli dei
cavalli del Palio. È un cuore che è anche una bussola – come del resto si
potrebbe dire di molti cuori: la Torre del Mangia, con i suoi 88 metri,
sovrasta qualunque altro edificio, e, quando si riesce ad alzare abbastanza lo
sguardo per intercettarla, è come una stella polare in laterizio, visibile
anche di giorno, che aiuta ad orientarsi nel labirinto a chiocciola delle
strade di Siena. Come tutti i cuori, inoltre, è ben protetto: la sua gabbia
toracica sono gli edifici che la circondano, quasi tutti di epoca medievale e
ristrutturati in forme neogotiche posticce ma coerenti come un restauro
sapiente, che ne precludono la vista dalle strade laterali che le serpeggiano
attorno come capillari di mattoni – finché non si imbuca uno dei stretti
chiassi che la collegano ad esse, e che si aprono come oblò sulla meraviglia.
E la sua meraviglia, credo, sta nella sua
forma: Siena, lo abbiamo detto, è tutta curve e salite, si aggroviglia rubando
spazio ai saliscendi delle sue colline, conoscerla è una lettura fatta di
postille e note a piè pagina, di rimandi che fanno tornare indietro e seguire
percorsi inusuali – non ci sono spazi ariosi in cui poter costruire un salotto
di rappresentanza con dimensioni e prosopopea degne di un simbolo di potere. E
quindi, cosa fai quando hai bisogno di sembrare più alto, più magro, o, in
questo caso, più grande di quello che la natura ti ha dato in dotazione? Ricorri
ad un inganno visivo, ovviamente: del resto, tutto ciò che è basato
sull’apparenza ha questo vantaggio – è molto facile da ingannare. E il
principale spazio pubblico di Siena fa questo per riuscire ad apparire più
ampia di ciò che è: sfrutta i saliscendi su cui è costruita ed assume la forma
di una valva di conchiglia per occupare più superficie di quanta il normale
perimetro glielo consentirebbe. La maestosità invece non ha bisogno di
escamotage per enfatizzarla: quella del resto non si basa su apparenze, ma
sull’essenza – e l’essenza dell’unicità intrigante e risoluta di Siena si
stende qui a vista d’occhio, abbracciando la Piazza e il Palazzo Pubblico, la
Torre del Mangia e gli edifici circostanti, che le fanno da ala come uno stuolo
di dignitari di corte.
Ma la forma aereodinamica a conchiglia non
ha solo finalità trompe-l’oeil, ha
anche un fine pratico: è qui infatti che, due volte all’anno, si corre il Palio
– questa festa millenaria che, nei secoli, è sempre riuscita a rimanere fedele
a se stessa, e che, per chi non è di Siena, è solo una corsa di cavalli, ma
che, per chi ci vive, è molto di più. È un fattore culturale, quasi, una specie
di rito di appartenenza ad una comunità che ha nella corsa soltanto il suo atto
finale, la sua apoteosi, ma che in realtà ha una liturgia continua, che va
avanti tutti i giorni dell’anno: far parte di una contrada non è solo una
questione casuale di nascerci o di trasferirsi – è quasi una filosofia di vita,
un “farne parte” che si basa su gerarchie e regole che resistono al tempo, e
che, come un rito iniziatico, sono conosciute solo da chi vi è dentro. Se
questo fosse stato un anno normale, oggi saremmo a pochi giorni dalla seconda
corsa del Palio, e, forse, ci sarebbe un’atmosfera diversa: più caotica, e più
frizzante, con quel profumo festoso ed eccitante di adrenalina nell’aria che
precede sempre i grandi eventi. Ma il 2020 non solo ha rivoluzionato il nostro
concetto di contraddizione, è anche riuscito a far cancellare questa tradizione
millenaria, che prima si era fermato solo per i due conflitti mondiali. Va
così, in questo anno strano – ma la riflessione sulle contraddizioni vale anche
per questo: imparare a ribaltare i concetti di positivo e negativo, e fare
l’esercizio di trovare qualcosa di bello anche in ciò che è strano e triste.
Alle feste ho sempre preferito i momenti tranquilli, ai grandi gruppi le
conversazioni a tu per tu – e oggi va bene così, ad immaginare i cavalli che
corrono, e a contemplare la maestosità nuda di questa conchiglia gigante
contornata di Medioevo.
Il bordo orientale della conchiglia è
dominato dal Palazzo Pubblico, un blocco compatto, elegante ed imperioso di
architettura gotica civile, fatto di pietra e laterizio, che occhieggia sulla
Piazza attraverso le sue trifore e ricorda il suo potere temporale con la sua corona
fatta di merli che corrono lungo tutto il tetto. In epoca comunale era sede del
governo, oggi invece ospita cultura e ricordi preziosi di arte e di storia
nelle sale del Museo Civico – più qualche mostra estemporanea nei suoi
sotterranei che un tempo venivano usati come Magazzini del Sale, e che una
volta abbiamo esplorato con una visita notturna gratuita durante una specie di
notte bianca che apriva le porte di questa sorta di palazzo reale laico, gonfio
di tesori fatti di affreschi, mappamondi ed allegorie.
Ma il vero elemento dominante della
Piazza, e dell’intera città sta al suo fianco, è alta quasi 90 metri, indossa
una corona di pietra ed è conosciuta da tutti più col suo nome non ufficiale
che con quello vero: è la torre campanaria del Palazzo, per gli amici, e ormai
pressoché per tutti, “Torre del Mangia”. Il simbolo di Siena non porta il nome
di un notabile, di un condottiero o di un artista, bensì del primo campanaro
che lavorò qui, e che probabilmente era anche molto bravo nel fare il suo lavoro,
ma che era più noto ai suoi concittadini per la sua indole edonistica che lo
spingeva a sperperare tutto il suo stipendio per soddisfare i propri vizi e
sfizi. Giovanni di Balduccio era soprannominato da tutti “il Mangiaguadagni”, e
nessuno dei suoi successori riuscì mai ad essere altrettanto memorabile da
riuscire a scalzare l’identificazione della Torre con il suo primo, controverso
custode. Siena, ormai lo abbiamo capito, ha dalla sua un’autoironia che si fa
giuste beffe di formalismi ed apparenze della buona società – e mi fa piacere,
perché significa in realtà che il colpo di fulmine che mi è scattato nei suoi
confronti ha delle basi inconsce molto solide, che non si fanno problemi a
dissacrare simboli, ma anche a riconoscere implicitamente meriti a chi, seppure
con i suoi difetti, era bravo a fare il suo dovere. Se questa Torre è rimasta,
per secoli, “del Mangia”, mi viene da pensare che forse il Signor Balduccio non
avesse soltanto le mani bucate, ma probabilmente anche un certo talento, e di
sicuro una grande dedizione.
La statua dell'automa del Mangia |
Tanto che, entrando nella cappella ai
piedi della Torre, c’è persino una statua a ricordarlo. A dirla tutta, in
realtà, questa statua è ciò che resta di un automa costruito qualche secolo
dopo per delegare alla meccanica il mestiere di campanaro – e la gente decise
di battezzarlo col nome di colui che per primo ricoprì questo ruolo. La statua
è mutilata ed ormai sfigurata, ma questo è perché per molti anni finì
abbandonata nei giardini di un palazzo nobiliare – finché un giorno, uno degli
eredi della famiglia, colpito da questo strano busto nascosto in casa sua,
provò a ricostruirne la storia e dedusse che potesse trattarsi dell’automa,
restituendolo al luogo a cui apparteneva.
Nessuno dei due Mangia, né quello in carne
ed ossa né quello di pietra, ebbero mai l’occasione di suonare l’attuale
mastodontica campana che abita il coronamento in pietra della Torre, però forse
l’avrebbero trovata interessante, perché anche lei si porta appresso un
soprannome particolare: era stata battezzata Assunta, dedicandola alla Madonna
come la Cattedrale; ma, dopo averla sentita suonare, i senesi decisero che la
sua voce non poteva essere affatto femminile – perciò le cambiarono genere e la
fecero diventare “il Sunto”. La sonorità roca del Sunto, in realtà, è frutto di
un difetto di fabbricazione: a provocarla è una frattura nella struttura della
campana, la cui riparazione avrebbe necessitato ulteriori fondi economici che
in quel momento non erano disponibili – pertanto venne rimandata a tempi migliori.
Ma, quando arrivarono, ormai ci si era affezionati al suo vocione cupo – ed è
proprio vero che, a volte, i difetti in realtà sono il nostro migliore assett.
Da Piazza del Campo al Duomo è un soffio,
ma è un soffio che si dipana in un pezzetto di labirinto di vicoli – che, dopo
un paio di volte, riesci a percorrere a sentimento, anche se hai un senso
dell’orientamento pessimo come il mio, facendoti guidare dall’istinto,
lasciandoti attrarre come se fosse una calamita.
Il Duomo di Siena all’anagrafe si chiama
Cattedrale di Santa Maria Assunta, e la sua facciata, capolavoro romano-gotico
progettato da Giovanni Pisano, e fatto di eleganti strati di marmi multicolori,
ricami di pietra e angeli dalle ali nere, non è solo di una bellezza
commovente, ma è anche un simbolo: di armonia; della piccola scintilla divina
che noi umani ci portiamo appresso, nascosta nella nostra parte migliore, e
che, ogni tanto, in qualche raro caso eletto e talentuoso, ci consente di
creare meraviglie come questa; dell’incommensurabile tesoro di arte e cultura
che il nostro Paese custodisce fra i suoi confini; e, in senso lato, di tutto
ciò per cui vale la pena viaggiare, scoprire, imparare, muoversi ed apprezzare
la vita.
La piazza in cui sorge è quasi una nicchia: lo abbiamo già detto, Siena non ha grandi spazi ariosi, è fatta di angoli intimi, rubati ai saliscendi dei colli ed incastonati in mezzo al serpeggiare dei vicoli – e anche il Duomo non si affaccia su un campo di pietra sconfinato, ma ha un suo spazio raccolto, racchiuso fra le mura del palazzo arcivescovile, di quello del Governatore e dell’ex ospedale di Santa Maria, e che, anche quando è assediato da stormi di turisti in coda, riesce a regalare quasi una sensazione di a tu per tu, di comunione con l’armonia e la bellezza di cui questo capolavoro si fa portavoce.
Il Duomo è un gioco di scatole cinesi: come
molti edifici sacri è stato eretto sopra le vestigia di qualche altro luogo di
culto che esisteva già - come segno di continuità; ma anche perché c’è stato un
tempo in cui l’umanità era più saggia, o forse semplicemente maggiormente in
comunione con ciò che la circondava, e, quando sceglieva un posto per
costruirci qualcosa di sacro, lo faceva perché l’energia che emanava gli diceva
che non poteva essere da nessuna altra parte. Il Duomo sorge sopra i resti di
un tempio dedicato a Minerva – e questa è la sua continuità col sacro del
passato, una sorta di evoluzione, intesa come cambiamento e non necessariamente
come miglioramento, ma che, pur variando modalità, dogmi e bandiere, non ha
perso di vista quello che è il suo nucleo più autentico: la spiritualità, la
comunione col divino. Il gioco delle scatole cinesi non finisce qui: ad un
certo punto qualcuno aveva avuto la curiosa idea di costruire un duomo ancora
più grande, che inglobasse al suo interno quello esiste – dell’abbozzo di
questo mastodontico progetto rimane quello che oggi è chiamato il Facciatone:
un gigantesco portale che si erge di fianco alla cattedrale e che doveva
rappresentare l’ingresso della nuova chiesa extra large. Un attacco di grandeur quasi americana (se non fosse,
ovviamente, che in quegli anni l’America non era ancora nemmeno stata scoperta)
che durò poco: la costruzione rivelò subito delle falle impreviste in termini
di stabilità, e, dopo numerosi crolli, complice anche un’epidemia di peste che
stava danneggiando seriamente le casse comunali, si decise di abbandonare
l’idea. Resta però questa prima parte del suo enorme scheletro, che, data la
sua mole e la sua posizione, serve per poter rimirare un panorama bellissimo
della città, che si fonde con il verde ocra delle colline in lontananza – come
un vecchio trofeo che viene usato dai bambini per giocare.
Il Duomo, come tutto ciò che è sacro e
mistico, ha i suoi segreti – e almeno un paio sono in realtà noti, solo che per
trovarli bisogna aguzzare la vista ed avere la pazienza di cercare. Che forse è
la metafora valida per tutte le cose che vale la pena trovare. Innanzitutto, se
anziché da piazza del Campo si arriva dal Battistero, per raggiungere il Duomo
bisogna percorrere una ripida scalinata – e, se vogliamo, anche questa può
essere una metafora. Salendo non si vede molto, ad un certo punto si può
cominciare ad intravedere un pezzo della facciata laterale, ma
fondamentalmente, mentre ci si arrampica, ci si concentra solo a salire, con la
speranza che ciò che si troverà alla fine ne sia valsa la pena – e questo vale
per ogni salita che si affronta. Ma, percorrendo questa gradinata, ci si può
dare anche un obiettivo in più: cercare un gradino contrassegnato da una croce
– che sarebbe stata messa lì a ricordo di un ruzzolone fatto da Santa Caterina,
terminato proprio su quello scalino con tanto di incisivi rotti. Ovviamente
Santa Caterina non è che fosse semplicemente caduta, distraendosi fra i suoi
pii pensieri o inciampandosi nelle vesti: no, naturalmente era stato il demonio
a spingerla – o così si dice, altrimenti non ne sarebbe valsa la pena di
rimembrare l’accaduto con un simbolo sacro. Il che mi ricorda un po’ quel
famoso detto per cui “I nobili non mangiano,
si nutrono”: allo stesso modo i santi non inciampano, sono spintonati dal
diavolo. Del resto il diavolo è anche il colpevole di tutti i peccati che
vengono commessi, che non sono frutto della volontà (o della mancanza della
medesima) di un individuo, ma semplicemente del suo malevolo intervento che gli
possiede ed ottenebra momentaneamente la mente – quindi perché non dargli anche
il potere di un banale capitombolo? Soprattutto dal momento che, in realtà, la
scalinata del Duomo fu costruita molti anni dopo la morte di Caterina – e qui
mi immagino un demonio un po’ imbronciato, seduto in un angolo con il suo
forcone, che bofonchia “Va beh, tanto è colpa mia a prescindere”: e che ci vuoi
fare? essere il Principe delle Tenebre comporta anche delle responsabilità,
mica solo sesso, droga e rock’n’roll. Chissà qual è la vera storia dietro
questa croce sul gradino: sul punto in cui compare, la superficie dello scalino
è un po’ concava e smussata, come se davvero avesse preso una botta. Ma,
trattandosi di marmo, dubito che il colpo in questione possa davvero essere
stato qualcuno che vi è caduto, spinte demoniache o no. Questo mi ricorda
quando, a quattro anni, sono caduta dal letto (non mi risulta che nessuna
creatura degli inferi mi avesse spinta, ma effettivamente adesso potrei anche
raccontare questa versione dei fatti), e ho battuto con la bocca sul ripiano
del comodino, ma, anziché spaccarmi i denti, avevo lasciato il segno dei miei
incisivi sul mobile. Mia mamma dice sempre che era merito della mia dipendenza
da latticini, che già allora era molto spiccata e che doveva essersi tradotta
in una percentuale di calcio particolarmente elevata – ma, se solo fossi più compliant alle regole del cattolicesimo,
forse adesso si potrebbe raccontare un’altra storia e quel pezzo di legno
avrebbe già raggiunto cifre stellari al mercato nero delle reliquie. Pazienza.
La croce sul gradino di Santa Caterina |
Il secondo segreto rivelabile del Duomo di
Siena è invece meno religioso e un po’ più mistico: si tratta del quadrato
magico del Sator, inciso su una delle sue facciate laterali. Il quadrato
magico, e, per l’appunto, un quadrato con scritta al suo interno la formula
magica “Sator Arepo Tenet Opera Rotas”: cinque parole palindrome, che si
possono leggere nello stesso ordine in qualunque direzione si guardi il quadrato,
che sono apparentemente senza senso, ma che in teoria rappresentano un
incantesimo molto potente. E, del resto, se la magia fosse comprensibile da
tutti, cesserebbe di essere tale. Ovviamente non si sa nemmeno quale sia la sua
genesi e chi se lo sia inventato: si ipotizza si tratti di una sorta di
preghiera protocristiana, che poi però venne applicata anche nella cabala, dai
Templari, nei rituali ermetici e anche satanici, dagli alchimisti, in amuleti
copti e sulle mura di Pompei. Persino per curare i cani idrofobi. Secondo me lo
usava anche Harry Potter, solo che la Rowling non ce l’ha voluto dire,
altrimenti Siena sarebbe stata invasa da ancora più turisti di quanto già
normalmente non sia. Io e Ginger Cat perlustriamo minuziosamente le mura del Duomo
palmo a palmo per trovarlo, ma non ci riusciamo. Dopo il terzo tentativo a
bocca asciutta ci arrendiamo, ed invochiamo l’aiuto del pubblico, chiedendo
informazioni ad una guida turistica, che ce lo indica – e lo vediamo apparire,
in un punto dove avevamo già guardato più volte, ma senza riuscire a vederlo. E
di nuovo qua le metafore fioccano facili – ma suppongo che semplicemente voglia
dire che non abbiamo ancora terminato il nostro cammino iniziatico e non siamo
ancora pronte per poter dominare il mondo. Se siete persone più pragmatiche di
me e non vi interessa fingere di credere nei segni del destino, oppure se
semplicemente avete fretta, vi dico dov’è: in un angolo in alto, attaccato al
muro del Palazzo Vescovile, sul lato sinistro, se guardate il Duomo di fronte.
Ma, altrimenti, fate finta di non avermi letta: trovarlo per conto proprio non
vi permetterà l’accesso a nessuna sapienza esoterica, ma dà comunque un po’ di
soddisfazione.
Il quadrato magico del Sator |
Dopo aver scovato il Sator, e aver fatto
altre innumerevoli foto alla facciata, che, con la luce del mattino sembra
ancora più rosata, ci mettiamo in coda per entrare. Visitare l’interno del
Duomo è qualcosa che comporta sempre dei tempi di attesa più o meno lunghi, a
seconda dell’orario e del periodo dell’anno, però, indipendentemente da questo,
ne vale sempre la pena: se, vedendolo da fuori, lo trovate bellissimo, sappiate
che dentro lo è ancora di più – e questa è un’impresa che, oltre a lui, penso
che riesca solo a Keanu Reeves. L’interno è sontuoso come un palazzo, ma al
tempo stesso è anche mistico: non è un’ostentazione di opulenza, ma un utilizzo
di ciò che è ricco e pregiato per rendere omaggio ad un ideale più elevato –
che, se siete credenti, chiamerete Dio, altrimenti potrete anche denominarlo
Bellezza, Armonia, Incanto. È una riproduzione della meraviglia del creato
fatta tramite le mani mortali degli uomini – limitate, ma al tempo stesso
sufficientemente benedette da riuscire a trasmettere agli altri esseri umani
che lo visitano lo stesso senso di stupore e splendore che ne hanno animato le
intenzioni creative. Le fasce bianconere delle colonne marmoree svettano
infinite verso l’alto, e fanno da architrave ad una volta blu ed intensa,
trapuntata di stelle dorate – come se fosse un vero cielo, come se fosse davvero
infinito, e non umano e caduco. Questo piccolo universo racchiuso fra le mura
di pietra di una cattedrale gotica è uno scrigno di tesori preziosi: i migliori
maestri senesi hanno dato del loro meglio per riempirlo, e anche il Bernini ha
contribuito ad arricchirlo con una cappella ed un paio di statue. Ma il tesoro
più prezioso, qui, è quello su cui si poggiano i piedi: se ci hanno sempre
insegnato ad alzare gli occhi verso l’alto per vedere la bellezza, il Duomo di
Siena probabilmente ci vuole ricordare che, a volte, anche a tenerli bassi si
può rimanere ugualmente incantati – il suo Pavimento è un capolavoro nel
capolavoro, un intarsio di marmi elaborato e sapiente volto a creare una
sessantina di scene, sia sacre che profane, che lo rendono un libro illustrato
di incommensurabile bellezza. Nel calpestarle ti viene una sorta di timore
reverenziale, e vorresti poter avere le ali per non sfiorarle nemmeno, ma ti
accontenti di muoverti intorno, quasi sulle punte, il più delicatamente
possibile per contemplarle meglio. Perché riuscire a contemplarle, in fin dei
conti, è già un privilegio raro: proprio per evitare che venga eccessivamente
rovinato, il pavimento rimane parzialmente coperto da uno strato sottile di
feltro scuro per diversi mesi all’anno.
Dal Duomo, scivolando giù per altri
vicoli, inseguendo la luce dorata del crepuscolo che incomincia a baluginare
fra le mura ed i tetti dei palazzi come una cometa, qualcosa che ti guida, o
che semplicemente ti dice che dove sei è il posto giusto – arriviamo fino alla
Casa Santuario di Santa Caterina, che è l’antica dimora dei Benincasa, la
famiglia di origine della santa, ed oggi ospita un suo memoriale.
Casa Santuario di Santa Caterina |
Entriamo, curiose. A me Santa Caterina è
sempre stata simpatica – e non solo perché, oltre ad essere patrona d’Italia, è
anche una delle poche donne che sia riuscita a diventare dottore della Chiesa,
imparando a leggere e scrivere da autodidatta e redigendo diversi volumi di
teologia, per quanto sia stata un’impresa notevole, in un’epoca in cui era
considerato un atto estremamente ribelle per una donna dedicarsi a simili
attività. E questa, devo dire, è già una cosa che mi fa riflettere, perché se
penso alla pressoché preponderante percentuale di tempo che passo, da sempre,
leggendo e scrivendo, nonché all’importanza, in termini di motivazione,
equilibrio, crescita e soddisfazione, che hanno queste due attività per me, mi
domando quanto e come sarebbe stata diversa la mia vita se fossi nata in
un’epoca, o in luogo, in cui mi fosse stato proibito praticarle. Chissà se,
come lei, avrei avuto il coraggio e la testardaggine di ribellarmi, di trovare
un modo per seguire lo stesso la mia strada – anche se avrebbe avuto un
pedaggio significativamente più salato di quello che pago adesso.
Ma, dicevo – degli altri motivi per cui
Santa Caterina mi è simpatica: beh, ad esempio è patrona delle infermiere – e
no, io non sono un’infermiera; però da sempre mi porto appresso una vocazione
autolesionista che oggi è universalmente nota come “Sindrome della
Crocerossina”, che consiste nel covare la totalizzante illusione di poter
redimere gli svariati casi umani che incrociano il mio cammino, ma che ogni
volta si conclude inesorabilmente nell’esatto contrario, ovvero con qualche mia
ferita di troppo e nessun salvataggio. Quindi, volendo, Caterina è anche un po’
mia patrona.
Poi – ecco, ho questo ricordo, che risale
ai tempi delle medie, quando andavo a scuola dalle suore e ci mandavano a fare
il ritiro spirituale: non c’era mai molto di spirituale in questi ritiri,
ovviamente; ma l’unica cosa che mi piaceva, a parte disegnare le caricature
delle suore sul retro del libro di preghiere, era leggere le biografie dei
santi. Perché a volte si scoprivano delle cose curiose, e perché – beh,
suppongo per lo stesso motivo per cui amo leggere in generale, di qualunque
tipologia di storia si tratti: per ritrovarci dentro delle cose che mi
appartengono, in cui mi posso riconoscere e trovare delle risposte che
altrimenti non riuscirei a reperire – o altre domande, anche. E della biografia
di Caterina mi erano rimaste impresse due cose: la prima, un’affermazione che
diceva qualcosa del tipo che finì per essere oggetto di disprezzo ed accuse
anche da parte di coloro che le avrebbero dovuto mostrare null’altro che
riconoscenza ed amore – e che questa cosa era stata voluta da Gesù per (e qua
mi sento di poter citare quasi testualmente) “renderla degna di imitarlo nella sua passione”. E da qui, anche se
avevo solo 13 anni, avevo già potuto dedurre non solo che Caterina è in effetti
a buon diritto anche santa patrona di coloro che hanno una crocerossina
interiore, ma che, in certi insegnamenti che ci vengono inculcati e che fanno
parte dell’imprinting culturale della nostra società, c’è qualcosa di
radicalmente sbagliato – perché sottintendono che soffrire non sia solo giusto
ma meritato, quasi un premio. E diciamo che, ad essere una santa, potrai anche
avere qualche piccolo privilegio tipo dire che è stato il demonio a spintonarti
ogni volta che ti inciampi per le scale; però ti becchi anche l’onere che, quando
ti trattano male, devi stare zitta e ringraziare, perché è un Dono divino – che
non ha nemmeno l’opzione del reso gratuito. Pensa te che fortuna. Non per
nulla, ad un certo punto, Caterina decise di fare voto di silenzio e non parlò
più per tre lunghi anni: per forza, se ogni volta che apriva bocca la
trattavano male. Anche se sono quasi certa che qualcuno abbia trovato qualcosa
da ridire anche sul suo silenzio.
La seconda cosa che mi aveva colpita,
invece, era che, beh, Caterina, anche se un po’ incompresa e bistrattata, era
una tipa molto tosta e determinata: si adoperò in alcune azioni diplomatiche di
un certo livello, riuscendo a negoziare la pace fra città nemiche e,
soprattutto, riuscendo ad ottenere il ritorno a Roma del Papa, dopo che era
fuggito ad Avignone. Ci riuscì mettendo in atto ogni mezzo possibile: colloqui,
suppliche, digiuni. Un po’ passive
aggressive come approccio, forse, ma in fin dei conti efficace. E, ecco, il
libriccino del ritiro spirituale delle suore commentava questo episodio come
“uno zelo ed un’attività ammirabili in
una donna”. Chissà se Santa Caterina potrebbe anche diventare patrona della
lotta contro il sessismo. Probabilmente sì – non fosse che, forse, la Chiesa
cattolica non è l’ente più adatto a proporre una simile carica.
Guardo la statua di Caterina presente
all’ingresso, con l’espressione estatica e le braccia rivolte verso il cielo,
come se stesse esultando: mi tornano in mente tutte queste cose, e sono
contenta di essere passata a farle visita. Dalla balconata che dà sul cortile
interno si vede un panorama incantevole, fatto di declivi collinari ed un
orizzonte che comincia a tingersi di colori caldi e rosati. Le piccole campane
nel cortile cominciano a suonare, annunciando l’ora del vespro – ed è quasi una
sorta di serendipità, una congiunzione astrale favorevole, un segno di buon
auspicio. Non so se sia una specie di miracolo: non pretendo che lo sia – mi
basterebbe che mi dicesse che qui ed ora sono dove dovrei essere, che è il
posto giusto, il momento giusto. Ma questo non ha bisogno di dirmelo: lo so da
me.
Il nostro saluto a Siena decidiamo di
darlo in un luogo speciale ed emblematico: scendiamo verso il basso, galoppando
lungo la ripida Via dei Malcontenti, che nel Medioevo ospitava le carceri – la
Torre del Mangia è sempre alle nostre spalle, ma più distante, circondata dagli
altri edifici del centro storico come un frontman
dalla sua band, ed incomincia ad illuminarsi dei colori del tramonto. L’Orto
dei Pecci è la nostra meta: è un angolo di campagna dentro la città, oggi
gestito dalla cooperativa sociale La Proposta, che si occupa anche del
ristorante al suo interno e che coltiva l’orto botanico medievale – una
riproduzione fedele delle varietà e modalità di coltivazione in voga durante
l’epoca d’oro della città toscana.
Fra le tante nicchie che Siena ha, questa
è quella più idilliaca e pacifica – ma è anche controversa: un tempo qui
venivano giustiziati i condannati a morte, e, per questo, si dice che, quando
calano le tenebre, fra le mura dell’Orto si aggiri anche qualche fantasma. Il
più celebre pare sia Frate Giomo, un religioso impiccato nel XVI secolo in
seguito ad una relazione peccaminosa con una suora – ma si parla anche di un
vampiro, tale Niccolò di Tuldo, decapitato anche lui qui, in presenza di Santa
Caterina. Probabilmente, visto il numero di condanne eseguite nel corso dei
secoli, nelle notti di luna piena ci deve essere un vero e proprio
assembramento; ma noi abbiamo solo visto pavoni, caprette ed altri animali.
Anche se, ad un certo punto, mi è sembrato di vedere volare un pipistrello, che
poteva essere un po’ sospetto. Ma credo volesse semplicemente dire che l’aria
da queste parti non è troppo inquinata. L’Orto confina anche con un altro luogo
di dolore risalente a tempi più recenti, l’ex Ospedale Psichiatrico. Oggi,
tuttavia, non è più in funzione ed ospita la facoltà di Ingegneria – e qua non
mi lascerò andare a facili battute.
Ma Siena, abbiamo visto, è sia bianca che
nera. È fatta di contraddizioni, di sfaccettature ribelli – ed è grazie ad esse,
credo, che non solo riesce ad essere così bella, ma anche a trasmettere questo
senso di pace, di armonia.
Addento una forchettata di pici all’aglione
(non si sa mai, qualora ci fossero davvero vampiri in giro), guardo la silhouette
scura della Torre del Mangia che si staglia contro il rosa aranciato sfumato di
blu del tramonto, e penso a questo – che quel poeta che diceva che nelle contraddizioni
c’è speranza, aveva ragione: è perché ti permettono di raggiungere ciò di cui avevi
bisogno anche quando non sapevi di averne.
Un bellissima ed esauriente descrizione del magico sogno gotico di Siena e della sua gente
RispondiEliminaGrazie Luciano :-)
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