All'isola di  Saona ci hanno girato “Laguna Blu” , il film dei primi anni ’80 che è servito per realizzare, tramite immagini patinate d...

Saona, le regole del reggaeton e delle finte isole deserte Saona, le regole del reggaeton e delle finte isole deserte

Saona, le regole del reggaeton e delle finte isole deserte

Saona, le regole del reggaeton e delle finte isole deserte

All'isola di Saona ci hanno girato “Laguna Blu”, il film dei primi anni ’80 che è servito per realizzare, tramite immagini patinate degne dello spot di un bagnoschiuma, la comune fantasia erotica di naufragare su un’isola deserta, ovviamente tropicale e bellissima, in compagnia dell’uomo (o donna) dei nostri sogni – ovviamente biondo e bellissimo.

Solo che io ho sempre preferito i mori da quando avevo cinque anni ed ero segretamente innamorata del serafico Benji Price, ombroso portiere della New Team ed antagonista del solare Holly nell’omonimo anime. E probabilmente preferirei naufragare su un’isoletta delle Orcadi – pioggia a parte. Ma non voglio fare la guastafeste come al solito. E lungi da me voler denigrare i paradisi tropicali: anche se preferisci lo strudel non potrai sicuramente affermare che il tiramisù faccia schifo, no?

Sulla location del film, però, qualcosa mi tocca dirlo, perché, per qualche strano motivo, se cercate su Google, scoprirete che i luoghi che si attribuiscono la paternità del set sono parecchi, quasi più di quelli che sostengono di custodire il Graal o di aver dato i natali ad alcuni santi; e la versione “ufficiale” di Wikipedia sostiene sia stato in realtà girato fra la Giamaica e le Isole Fiji.

Magari qualche scena molto secondaria che è poi stata tagliata in fase di montaggio? O forse qualche remake/sequel/prequel/spin off?


Non ha importanza: personalmente, del resto, non ho mai considerato “Laguna Blu” un capolavoro della storia del cinema, e un paradiso tropicale è degno di essere visitato a prescindere.

Anche se non ci hanno girato film.

E anche se – ecco, anche se sicuramente non risponde granché al cliché dell’isola deserta.


Saona, come tutti gli angoli più gettonati della Repubblica Dominicana, è una roccaforte del turismo di massa: ogni giorno viene presa d’assalto da circa 700 persone, che si affastellano sulle sue spiagge bianchissime e fanno il bagno nelle sue piscine naturali – quindi, set cinematografico o no, di sicuro è tutto fuorché un’isola deserta.

Però bella è bella – su questo non ci sono particolari dubbi.


Il catamarano si ferma prima per una sosta aperitivo nelle piscine naturali a poche centinaia di metri dalla costa dell’isola. Le piscine sono famose per le stelle marine. O meglio dovrebbero esserlo – ne sono ormai rimaste poche: si è scoperto tristemente in ritardo che le stelle non gradivano molto essere tirate fuori dall’acqua per orde di selfie con altrettante orde di turisti, ripetutamente ogni santo giorno. Oggi fortunatamente vige il divieto di tirarle fuori dall’acqua – ma qualcosa mi dice che anche il quantitativo di piedi danzanti che gli ballonzolano intorno sorseggiando rhum & coca non gli faccia granché piacere.



Mano Juan è un villaggio di pescatori fatto di baracche variopinte e di barche altrettanto colorate: si vendono pannelli di batik con scene di vita quotidiana, stoffe, souvenir intagliati nel legno di cocco. Lungo la spiaggia si aggirano cani ed asini e ci sono chioschetti che offrono latte di cocco da sorseggiare direttamente dentro la noce.


File di lettini danno le spalle a fitti palmeti in cui è stata appesa qualche amaca. Alcune palme si coricano direttamente a fianco del mare cristallino – e diventano immediatamente gettonatissime per la classica foto da influencer ai Caraibi: sparapanzati sulla palma pendente, ananas ripieno di pina colada in mano, sorriso smagliante e cinquanta sfumature di blu sullo sfondo.

Sì, va bene, lo confesso: me la sono fatta anch’io, ma la mia pare più una parodia versione Mercoledì Addams.


“Tutti a bordo! E chi non balla rientra a nuoto!!!”.

Ecco. Questo è un problema, dato che non so nuotare. Per fortuna, a bordo, in realtà nessuno vuole ballare, a parte un paio di bambini. Tutti gli altri si accontentano di trangugiare rhum a grandi sorsi: per me è anche un antidoto per riuscire a resistere al martellamento assordante del reggaeton, che ormai sta durando da diverse ore.

La compilation di bordo è ben nutrita, ma mi pare che ci sia un pattern ritmico costante, e anche le parole si ripetono: probabilmente esistono delle regole, e non otterrai la certificazione di musica caraibica doc se non contieni almeno tre locuzioni a scelta fra “despacito”, “corazon”, “vida loca”, “bailando”, “toda la noche” e “amor”.

Il porto di Bayahibe si inizia ad intravedere in lontananza, e penso che forse manca poco. E, se non manca poco, anche se non so nuotare non importa, mi butto in mare lo stesso.

Poi arriva lui.

Il tramonto.


Il catamarano si ferma, si gira verso ovest e beccheggia sull’acqua, in attesa. Sta per cominciare lo spettacolo, e persino le casse di bordo si zittiscono, finalmente.

Il saluto del sole a questa giornata tinge il cielo di colori caldi, oro, pesca, arancio, magenta: il mare gli va dietro, riflettendo ed amplificando questa sinfonia che sa di addio e di bellezza – mentre tutto il resto del mondo rimane in silenzio, sagome nere indefinite e meravigliate che contemplano il capolavoro da dietro le quinte.

E, davanti a tutto questo splendore, anche se non c’è più musica è come se ci fosse – ma una musica diversa, universale, di cui ognuno suona una versione differente ma al tempo stesso simile.



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