Mantova è una città anfibia.  Il suo lato migliore, quello che se, fosse una ragazza con mire rapaci nei confronti di un pretendente elusiv...

Mantova: girl power, acqua e metafore Mantova: girl power, acqua e metafore

Mantova: girl power, acqua e metafore

Mantova: girl power, acqua e metafore




Mantova è una città anfibia. 
Il suo lato migliore, quello che se, fosse una ragazza con mire rapaci nei confronti di un pretendente elusivo, userebbe come foto profilo, lo mostra quando la si guarda dal fiume: arrivando dal Ponte San Giorgio c’è questa immagine da cartolina, da quadro anzi, di lei adagiata sul Mincio, i suoi gioielli in bella mostra, che spuntano fieri dalle mura medievali, sotto teca come farebbe un collezionista di aspetti migliori, e il resto che fa quasi da contorno, da collante – muri, palazzi e strade che si aggirano fra le celebrità del suo skyline come controfigure, come quei fiorellini semplici e bianchi che si infilano nei bouquet per riempirli. 
Si specchia nelle acque, che diventano come un abito elegante da indossare, diverso per ogni occasione: azzurro quando il sole splende, brumoso e latteo con la foschia, caldo e dorato al tramonto, nero e vellutato, con bagliori di luce come gioielli, quando cala la notte. 
Questo è il suo biglietto da visita, il suo invito a scoprirla. 
Ma è anche un simbolo della sua essenza, delle sue origini.   



Mantova si è inventata una leggenda, per raccontare della propria nascita, e per far capire la sua natura ibrida – che non è casuale, ma che le fa da radici, da componente essenziale dell’anima. 
Le leggende sono tutte così: germogliano da un seme di verità, ma poi lo trasformano, lo amplificano imbellettandolo con le volute dorate del mito, con le ali leggiadre della metafora – e poi lasciano che si dirami, che corra di bocca in bocca, che si cambi i dettagli e a volte anche i connotati scivolando in versioni diverse, attraverso il telefono senza fili della tradizione orale. 
L’esercizio mentale è sovrapporre queste diramazioni una sopra l’altra, come frammenti di DNA al microscopio – trovare i tratti comuni, risalire al seme originario che diceva la verità. 
Quale sia la verità di Mantova in realtà non lo sappiamo, però a tutti i rami della sua storia piace raccontare dell’indovina tebana Manto, maga che ereditò dal padre Tiresia il dono e fardello della profezia, la quale, in fuga dal dolore della sua città distrutta, arrivò peregrinando fino a qui, dove ebbe una visione di una città bella e prospera che sorgeva dalle acque. Le sue lacrime si asciugarono e si raccolsero a formare i laghi attorno, e al primo nucleo urbano che fece costruire decise di dare il suo nome. 
Che a questo punto diventa un po’ una profezia che si auto-adempie, se vogliamo: ha fondato una città perché hai avuto una visione, o hai avuto una visione perché hai fondato una città? Ma il mestiere dell’indovina è già sufficientemente ingrato, senza bisogno di stare a cavillare sui paradossi delle visioni: del resto fondare non è una garanzia di far crescere in prestigio e bellezza, e, in questo, la premonizione di Manto è stata indubbiamente veritiera. 
Un’altra versione della storia vuole che la città venga in realtà fondata in suo onore da suo figlio Ocno, concepito insieme al dio che domina il fiume Tevere – quindi cosa centri il Mincio in tutto questo non ci è ben chiaro: forse aveva semplicemente un’aria famigliare, o forse è giusto per ribadire che l’anima di Mantova è fluviale. È anche lei figlia dell’acqua come i suoi presunti mitologici fondatori, dall’acqua si alimenta e sull’acqua ha fondato la sua gloria.   



La sua configurazione urbanistica, infatti, è frutto di un’opera da manuale di ingegneria idraulica, che, nel XII secolo, la fece circondare dai tre laghi esistenti ancora oggi: il lago Superiore, quello Inferiore e quello di Mezzo – derivati dalla canalizzazione delle acque del Mincio, in realtà, e non dalle copiose lacrime di una maga fuggiasca. Ne esisteva anche un quarto, questo di origine naturale, denominato Paiolo – che però fu prosciugato nel XVII secolo perché ormai ridotto ad una mefitica palude. Questo significa, però, che c’è stato un tempo in cui Mantova era di fatto un’isola: e questo suo cuore originario, sospeso sull’acqua, è anche quello più antico e ricco, prezioso e raccolto come uno scrigno.   



Noi ci arriviamo una sera di inizio novembre, sotto una pioggerella fitta, e, la prima cosa che ci accoglie, sono i portici di Piazza delle Erbe: le luci ed i chiaroscuri la fanno sembrare un luogo altro, come se fossimo tornati indietro nel tempo, o, semplicemente, come se si fosse sospeso per qualche istante. L’atmosfera è raccolta e sa di cose antiche, cose che si sono tramandate quasi immutate perché sono forti, o, semplicemente, perché ne valeva la pena conservarle. 
Le luci sono come evidenziatori ed attirano l’attenzione su ciò che è importante: Palazzo della Ragione è un simbolo più che del potere della sua amministrazione, e per lungo tempo ha fatto da teatro allo svolgimento delle funzioni civili e dell’esercizio della giustizia. 
Ha una torre, su cui è incastonato un grande orologio meccanico, che, per gli abitanti di Mantova del XV secolo, faceva sostanzialmente da calendario comune: segna le fasi lunari, le posizioni dei pianeti e dei segni zodiacali, i giorni utili per seminare, per viaggiare e per fare salassi – ma, curiosamente, in tutta questa ricchezza informativa, gli mancano i minuti. Un po’ come se uno smartphone, in grado di fare anche da browser, navigatore e macchina fotografica, non fosse però in grado di telefonare. La tecnologia dà, e la tecnologia a volte toglie. In ogni caso oggi questa Torre ospita un Museo del Tempo, dedicato agli orologi e a tutti gli altri strumenti che, nel corso dei secoli, l’uomo ha predisposto per misurare lo scorrere delle giornate. 



L’altro emblema di questa piazza è la Rotonda di San Lorenzo, una chiesa romanica ormai sconsacrata, che fa da confine con l’inizio del vecchio quartiere ebraico. L’edificio è semplice e sobrio, ma ha la sua importanza storica: prima cosa perché fu fatto erigere ad immagine e somiglianza del Santo Sepolcro di Gerusalemme; e seconda cosa perché fu voluta da Matilde di Canossa
Ho aperto questo racconto dicendo che Mantova è una città anfibia, ma, mentre scrivo, mi rendo sempre più conto che, in realtà, l’acqua su cui Mantova sorge è anche metafora del principio femminile: Mantova è indubbiamente una città di donne – partendo dal mito della sua fondazione e passando man mano per le figure storiche reali che l’hanno governata e plasmata nella forma bella e gloriosa che vediamo oggi, in un’epoca in cui il potere alle donne era considerato non solo un’utopia, ma una vera e propria bestemmia. Matilde fu una feudataria molto potente ed abile politicamente, che dominò praticamente quasi tutta l’Italia settentrionale negli anni bui a cavallo fra l’XI e il XII secolo, nel pieno periodo della lotta senza quartiere fra papato ed Impero per le investiture – durante la quale giocò un ruolo fondamentale, dimostrando grande scaltrezza strategica. 
Lo storico Jacques Le Goff la definì “antesignana del femminismo” – e indubbiamente fu in grado di dimostrare con i fatti e con la sua bravura al comando che le doti di un buon leader sono indipendenti dal sesso con cui nasce. Fece un paio di matrimoni politici, ma seppe mantenere il controllo del suo potere senza farsi relegare al ruolo dietro le quinte che una moglie a quei tempi necessariamente doveva avere, anche quando venne accusata dal primo marito di non essere riuscita a dargli il tanto agognato erede maschio – si dice in compenso che avesse una relazione clandestina nientemeno che con il Papa. 
Ma d’altro canto si diceva anche che avesse fatto un patto con il diavolo e lo tenesse prigioniero in una fialetta di vetro in cambio dell’invulnerabilità del suo feudo: l’invidia sarà anche un difetto, ma indubbiamente spesso riesce ad essere molto creativa.   


La sera mantovana ha una bellezza stregata che ti avvolge per tutti i vicoli del centro, che noi percorriamo in cerca di un posto dove cenare: la scelta è abbondante, trovare posto senza aver prenotato è un po’ meno facile – ma alla fine ci riusciamo. 
Le suggestioni di un luogo, lo sostengo da sempre, passano anche attraverso il palato – e Mantova, a tavola, si fa conoscere con abbinamenti di dolce e salato che riflettono la sua natura ibrida, sospesa fra due mondi e ben intenzionata a prendere il meglio di entrambi: la pasta ripiena di zucca ed amaretti, la mostarda che accompagna i taglieri di salumi da degustare con un calice di vino rosso e corposo, la torta sbrisolona, croccante da mordere, che sa di burro e mandorle, sono i capisaldi principali di questa declinazione della sua anima doppia in cucina, dai quali non si può prescindere per imparare a conoscerla al meglio.   



Il giorno dopo è tempo di approfondire la prima impressione fugace ottenuta tramite gli occhi, le storie ed il palato: è tempo di andare a trovare Mantova nei suoi salotti buoni, a conoscere la sua superficie più ricca ed elegante, per capire cosa e quanto della sua anima femminile, ibrida ed anfibia si riflette in essa. 
Mantova di salotti ne ha due – ma non sono soltanto un’ostentazione di potere e di facciata: sono un esercizio di bellezza, l’espressione di una storia e di un messaggio attraverso l’arte e la cultura. Il primo salotto da cui partiamo è quello più discosto dal centro, ed è quasi una garçonnierre, una villa di ozi e svaghi girando per la quale viene facile immaginare le atmosfere romantiche e sfarzose che devono averne riempito le sale ed i corridoi. 
Si chiama Palazzo Tè, pur non avendo nulla a che vedere con la bevanda – nonostante sotto sotto un po’ ci sperassi. 



È una meravigliosa villa cinquecentesca, con annesso un immenso giardino, che sorge sul terreno che ospitava le ex scuderie dei Gonzaga e fu commissionata all’architetto Giulio Romano, allievo di Raffaello, con l’obiettivo di impressionare l’imperatore Carlo V in visita a Mantova – e pare che funzionò, dato che in seguito concesse ai Gonzaga l’annessione del Monferrato ed elevò il loro dominio al rango di Ducato. 
Il committente ufficiale di questo capolavoro è il duca Federico II, ma in realtà la scelta di Romano e l’idea di fondo fu di sua madre Isabella d’Este – altra figura femminile chiave nella storia di Mantova: al contrario di Matilde, si mosse sempre dietro le quinte, alle spalle prima del marito e poi del figlio, ma, non solo fu in grado di tessere trame politiche che portarono Mantova all’apice del potere, fu di fatto artefice di un’ammirabile strategia di marketing che ante-litteram che portò ad un rinnovamento d’immagine della città e di prestigio della famiglia. 
Seppe occuparsi sia di public relations che di arte e cultura, diventando mecenate e collezionista ed arricchendo Mantova di alcuni dei suoi gioielli più significativi. Ah, era anche una musicista dotata ed era brava con gli scacchi: forse era una di quelle persone un po’ fastidiose che finiscono per eccellere in qualunque cosa facciano – ma, mentre cammino estasiata lungo le sale di questo suo mirabolante salotto, decido che posso perdonarla. 
Nelle sue sale interne, in cui sembra ancora di vedere le feste ed i banchetti che devono averle allietate, oggi sono ospitate interessanti collezioni d’arte antica, che spaziano dall’Egitto alla Mesopotamia. 
Ma il tratto distintivo del Palazzo, il numero speciale che tiene in serbo per conquistare il visitatore, per farsi ricordare come qualcosa di unico è la Sala dei Giganti: si tratta di una sala interamente affrescata con un ciclo di dipinti che narrano le vicende mitologiche della Gigantomachia – ma che lo fanno con un’intensità e, soprattutto, con una destrezza tecnica tali da dare l’impressione che i Giganti siano vivi, reali, che i loro corpi possenti stiano per franare addosso all’incauto visitatore. 
Giulio Romano, nel realizzare questo suo capolavoro, ha preso la strada di discostarsi in maniera abbastanza netta dallo stile più elegante e delicato del suo maestro, per dare un’impronta tutta sua – più possente, più drammatica. E indubbiamente molto coinvolgente, sfruttando l’illusione ottica data dagli angoli smussati del soffitto, che creano l’impressione di trovarsi proprio all’interno della concitata scena di lotta – da ammirare rapiti con il naso all’insù. 



Palazzo Tè dunque è un salotto di quelli impegnati, dove non ci si dedica semplicemente al riposo ed alle conversazioni superficiali – ma, anzi, ci si accende in dispute appassionanti, e, soprattutto, si lascia sottintendere anche qualche mistero, qualcosa di un po’ proibito, parlando in codice. 
È del resto anch’esso figlio della sua epoca, di quel Rinascimento che, alla ricerca dei significati più profondi nascosti dietro il concetto di mera bellezza, si lasciava attrarre dagli studi occulti ed esoterici – ma è anche figlio di Mantova, della sua anima ibrida sospesa fra due mondi e delle sue leggende un po’ magiche che si intrecciano attorno alle sue radici. 
Simboli alchemici ed esoterici sono stati lasciati qua e là nel palazzo, con una studiata nonchalance che somiglia alla predisposizione degli indizi per una caccia al tesoro: c’è un labirinto, tanto per cominciare; ci sono degli ottagoni nella Sala di Amore & Psiche; c’è una salamandra e c’è una misteriosa grotta, che in realtà era un bagno. Quale sia il tesoro a cui conducono – beh, solo chi sarà degno di superare tutte le prove del cammino iniziatico, riuscirà a scavare a fondo e a trovare la chiave per far dischiudere tutti i segreti. Dell’alchimia e di Mantova.   


L’altro salotto di Mantova è più di rappresentanza: si occupa più di politica e meno di cultura; non nasconde segreti – o, forse, semplicemente lo fa talmente bene da non lasciare neppure nessun indizio in codice. 
Si affaccia imponente sull’ariosa Piazza Sordello, che della città è il cuore – e forse anche il cervello. 
È una piazza enorme per una città così raccolta, è ricoperta di ciottoli ed è un po’ ingobbita: ma, se ci si posiziona al centro, in un colpo d’occhio si riesce ad imparare subito tutto quello che conta. 
Da un lato c’è il Duomo, la cattedrale intitolata a San Pietro: un collage di stili diversi, con la facciata neoclassica, la fiancata sinistra gotica e il campanile romanico, che ospita le tombe dei Gonzaga e in cui c’è anche lo zampino del nostro amico Giulio Romano. 
Poi c’è la Casa del Rigoletto, che oggi ospita l’Ufficio del Turismo; l’inquietante Torre della Gabbia, un carcere en plein air costituito da una gabbia di ferro sospesa a mezz’aria che imprigionava i malcapitati malfattori – e poi, ovviamente, c’è lui, il Palazzo Ducale, un complesso così imponente e variegato, che in effetti è forse un po’ riduttivo definire salotto: è più un’intera casa, una città a parte dentro la città. 
Ma ormai l’abbiamo capito: i Gonzaga amavano fare le cose in grande, e, in questa città dall’anima ibrida, anche i salotti diventano un gioco di scatole cinesi, un universo a sé stante. 



Questo universo è composto da tre mondi, cresciuti in epoche diverse uno di fianco all’altro, come estensioni del pezzo precedente volte a trasportarlo in nuovo secolo che si stava aprendo, a renderlo moderno e compatibile con le novità e le necessità che quel tempo richiedeva: la Corte Vecchia, la Corte Nuova e Castel San Giorgio sono pertanto come tre strati geologici sviluppatisi in verticale anziché in orizzontale, uno a fianco dell’altro anziché sopra; sono blocchi distinti ma al tempo stesso armonici, ed oggi fanno di Palazzo Ducale la più grande struttura adibita a museo in Italia, con più di 500 stanze da esplorare, ma anche strade e giardini. 
Come Palazzo Tè, anche lui ha la sua punta di diamante, il suo asso speciale da giocare per lasciare a bocca aperta il visitatore: è la celebre Camera degli Sposi, capolavoro del Mantegna che colpisce per maestosità ed espressività – ma per cui, per poterlo visionare, è necessario prenotarsi con un certo anticipo poiché l’accesso è limitato, e, siccome noi non eravamo state sufficientemente previdenti per farlo, abbiamo potuto soltanto immaginarla. 



Ho però apprezzato un’altra piccola chicca, che non sarà una punta di diamante, ma per me è stata comunque un minuscolo zircone splendente: l’Appartamento dei Nani di Corte, dove ogni oggetto ed elemento è rappresentato in scala ridotta. 
Ma attenzione – non si tratta del primo esempio di interior design accessibile della storia: in questa tana hobbit di lusso non ci abitavano veramente i nani, e nemmeno dei bambini in età prescolare. C’è semplicemente di nuovo lo zampino dell’ermetismo rinascimentale e delle sue metafore esoteriche: è una stanza che vuole simboleggiare il cammino iniziatico, in cui si parte da una condizione morale piccola e limitata per poi ascendere passo dopo passo alla grandezza. 
Confesso però che questa interpretazione intellettuale mi ha un po’ delusa – e soprattutto mi immagino quanto fosse irritante per i poveri nani doversi arrabattare con mobili e suppellettili per loro oversize quando ci sarebbe stato a disposizione un ambiente su misura, che però restava lì intonso a fare da metafora spirituale. 
Ma, siccome all’epoca non esistevano movimenti sindacali per Nani di Corte, né social network su cui potessero far sentire la loro voce, anche questo me lo posso soltanto immaginare. 



Evidentemente a Palazzo Ducale questo schema delle cose lasciate all’immaginazione piace parecchio, perché, per essere all’altezza degli altri edifici simbolo di Mantova che abbiamo incontrato finora, anche lui ha una sua figura femminile di riferimento, una sua madrina d’eccezione – ma, anche lei, si può soltanto immaginare. Si tratta del fantasma di Agnese Visconti, moglie di Francesco I Gonzaga, che però, tristemente, non ebbe modo di compiere grandi imprese politiche o di spronare lo sviluppo artistico della sua città, ma fu vittima del marito, che la fece decapitare – ufficialmente per adulterio, ma, chissà, forse, più probabilmente, anche per avere la possibilità di risposarsi e di tentare di assicurarsi la successione con quell’erede maschio che Agnese non era riuscita a dargli. 
Il suo amante tentò di salvarle la vita dichiarando al processo di averla costretta – ma fu un gesto del tutto inutile, e il fantasma di Agnese si aggira ancora urlando, senza pace, per i cortili del Palazzo.   


Come Agnese, anche noi saremmo tentate di non voler più lasciare il Palazzo – o Mantova, se è per questo. Ma il nostro tempo qui sta per scadere, ed è giusto salutare questa città in cui la superficie è metafora dei suoi stessi misteri nel modo migliore che abbiamo a disposizione: con un brindisi a base delle sue delizie, e con una passeggiata fino all’altro lato del ponte, per rivederla così come l’abbiamo incontrata la sera precedente per la prima volta – illuminata dai suoi gioielli, mentre si specchia nell’acqua scura. 
Qualche mistero ce l’ha raccontato, ma con i misteri funziona che, man mano che ti danno delle risposte, ti affiorano ancora più domande. 
Esattamente come succede con i viaggi. 
O con la vita.  



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