I dominicani ballano. Sempre.
Anche il personale di sala che ti accoglie nei
ristoranti del resort, mentre aspetta davanti alla porta che arrivino gli
ospiti da far accomodare, muove spalle e piedi a ritmo della musica
perennemente di sottofondo, pur mantenendo una professionale compostezza.
“Ehi,
blanquita!” cerca di attirare la mia attenzione un animatore
per invitarmi ad una lezione di salsa sulla spiaggia – e poi comincia a
parlarmi in tedesco, pensando probabilmente che sono troppo pallida ed asociale
per essere italiana. Scusa, ti sbagli: sono norvegese.
E il mio spleen
connaturato mi spinge a domandarmi se sia proprio un fattore culturale, se
siano davvero sempre così – perennemente allegri e ridanciani, festosi e
danzerini come se avessero impiantato da qualche parte, nei timpani o nel
cuore, un microchip che emana continuamente note di reggaeton; oppure se sia
una deformazione professionale, soltanto una maschera gaudente che indossano
per lavoro, per far divertire noi turisti.
La risposta la cerco per le vie di Santo Domingo, la capitale di questa
mezza isola spaparanzata nel Mar dei Caraibi: ci andiamo su un affollatissimo
pullman granturismo con l’aria condizionata sparata a livelli polari, con
spiegazioni fatte in sette lingue.
Santo Domingo è una città povera ma tranquilla,
con un cuore coloniale piccolo ma ancora sontuoso, fatto di palazzi barocchi,
virtuosismi architettonici spagnoli, vicoletti lastricati color ocra che si
estendono in salita sotto il sole cocente. Entriamo nella cattedrale,
nell’atrio del parlamento, nell’alcazar
di Diego Colombo, figlio di Cristoforo e primo governatore dell’isola di
Hispaniola, che non era ancora spaccata in due fra Repubblica Dominicana e
Haiti: è un palazzo piccolo e relativamente semplice, ma a modo suo ancora più
ricco ed affascinante di molte cose viste in Europa – è un po’ come se fosse un
riassunto di ciò che, a quei tempi, nel Vecchio Continente, fosse considerato
bello e fastoso. Un condensato di ricchezze architettoniche e di cose preziose.
Pranziamo in un ristorante affollato con ballerini
in costumi tradizionali che piroettando fra i tavoli, poi ci infiliamo fra i
vicoli, dove acquisto del cacao in polvere profumatissimo ed un anello con una
pietra turchese come il mare: è il larimar,
un minerale prezioso che esiste solo qui e che, si dice, abbia il potere di
portare l’amore nella tua vita.
Mi vengono in mente le acque trasparenti del mio pezzo silenzioso di spiaggia, e penso che, in quel senso di armonia e pienezza
che ho respirato camminando sulla sua sabbia, indubbiamente c’era anche
dell’amore – che ha tante forme, anche se siamo abituati a cercarne sempre una
soltanto.
Guardo una bambina vestita di giallo che corre
felice in mezzo agli stormi di piccioni che invadono la piazza centrale della
città, e penso che neanche così sono riuscita a capire la vera anima di Santo
Domingo: sembra continuare a volermi sfuggire, a scivolarmi fra le dita con una
risata divertita mentre balla senza sosta con la sua musica altissima e
ritmata.
O, forse, semplicemente è così: non è solo la
superficie, è davvero anche la sua essenza.
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