Il fascino di Helsinki è un fascino da
introversa. Non è una città che si faccia notare: non ha monumenti sontuosi,
non ha un cuore antico con vicoli pittoreschi – sostanzialmente, non ha
qualcosa, sulla superficie, che sia unico e distintivo. La sua personalità sta
tutta nell’atmosfera, più che nell’apparenza: è una capitale, ma circondata da
isolette, con il mare che fa capolino all’improvviso, come una sorpresa, da
qualunque parte ci si trovi. Ha un’eleganza discreta, fatta di colori tenui e
sobri, di linee neoclassiche e, ogni tanto, qualcuna che vira inaspettatamente
verso qualche voluta art nouveau –
austera, ma con grazia, con delicatezza.
È una città che ama il verde, il silenzio,
l’armonia del design. È una città che forse non ti fa innamorare subito: te ne
vai con una sensazione neutrale, dicendoti che non ti è dispiaciuta ma nemmeno
ti è entrata nel cuore – eppure continui a pensarci. Ed è difficile dire che
cosa esattamente ti abbia colpito: ha più a che fare con una sensazione che non
con una lista di cose – la giri relativamente in fretta se ci vai come turista;
però avresti voglia di tornarci, e ti dici persino che è un posto in cui non ti
dispiacerebbe vivere. Il fascino introverso funziona così, di solito: non
colpisce sempre e non colpisce tutti, ma, quando lo fa, va a toccare corde
profonde, e finisce per legarti in un modo che razionalmente non saresti in
grado di spiegare. Per le persone ha a che fare con gli occhi, con la luce che
hanno e con le cose che dicono che le parole non riuscirebbero a tradurre; per
le città invece ha a che fare con l’aria che respiri camminando per le loro
vie, con l’atmosfera che le scorre attraverso, che può essere un’onda o una
musica. In entrambi i casi, alla fin fine, ciò che conta è come sanno farci
sentire.
Io ci sono arrivata in una mattinata di ottobre,
con un traghetto gigante da Tallinn, che sembrava quasi una nave da crociera.
Abbiamo attraversato il Mar Baltico, che era scuro, con tante nuvole in cielo –
ma ad un certo punto è uscito fuori l’arcobaleno, e ho pensato che a volte
succede proprio così: che sono esattamente le cose che pensi che non ti
rimarranno impresse quelle che poi finiscono per stupirti di più.
Dal porto al centro ci si va con un tram verde
bottiglia, che scivola via per le vie della capitale finlandese e te la fa
sfilare sotto gli occhi in tutte le sue diverse declinazioni: più anonima in
periferia, più moderna, più ariosa, più elegante e sofisticata man mano che ci
si sposta verso il cuore.
Helsinki ha una stazione ferroviaria che sembra
una chiesa, rivestita di granito e di austeri giganti che la illuminano di
notte tenendo in mano globi di luce – ed ha una cattedrale che assomiglia di
più ad un edifico laico, per le sue linee sobrie ed essenziali: domina la
piazza del Senato con la sua architettura severa, il bianco dominante della
facciata, le cupole verde rame e dodici statue degli apostoli sul perimetro del
tetto, unica sua concessione decorativa all’arte sacra, poiché anche
all’interno è molto spoglia. Davanti a lei, una statua dello zar Alessandro II
girata di spalle, resta come monito del rapporto conflittuale e difficile avuto
con la vicina Russia nel corso degli ultimi secoli.
La Cattedrale guarda dritto verso il mare – e, se
da basso non si riesce a rendersene conto perché l’orizzonte è nascosto dai
palazzi altissimi che fanno da barriera, basta infilarsi in una delle stradine
frontali più strette per ritrovarsi all’altro porto di Helsinki, quello
meridionale, quello, soprattutto, che ospita il suo variopinto mercato.
All’orizzonte si accalcano ancora delle nubi color
piombo, ma non sono più minacciose: hanno girato le spalle e stanno andando
via, perforate da raggi di luce intensi, che creano giochi di chiaroscuro
variegati come una sinfonia – e questo sole che esce fuori conferma le promesse
dell’arcobaleno visto dalla nave, è come una speranza. E fa capire perché,
quando viene visto attraverso uno spesso strato di nuvole nere, appare ancora
più bello.
Lungo il molo si trova l’edificio di legno
squadrato, risalente al XIX secolo, che ospita il Kauppahalli, il mercato coperto: vagare fra i suoi banchi è un po’
come aggirarsi in una sorta di versione scandinava di un souk – ovvero molto più sobria, ordinata, e, soprattutto, con
tanto, tantissimo salmone. Il salmone qui è un po’ come in Italia la pasta:
esiste in un numero potenzialmente infinito di declinazioni – col pepe, con
l’aneto, con il cognac, con i pistacchi, con le bacche essiccate. E poi pane,
aringhe, carne di renna – persino sotto forma di kebab, ad interessante riprova
che la globalizzazione si estende ovunque.
Compro una pulla,
la girella alla cannella che si trova un po’ dappertutto nei paesi scandinavi,
e che qui si chiama così. E che, soprattutto, io non mi lascio mai sfuggire.
Fuori ci sono altre bancarelle, lungo tutto il
perimetro delle banchine portuale: vendono bacche, frutti di bosco, funghi,
aringhe, oggetti di lana e di legno. Pranzo con un piatto abbondante di pesce
misto e patate preso ad una delle bancarelle e condito con salse a me
sconosciute, che sanno un po’ di senape ed un po’ di aneto.
Vorrei dirvi che nel cimitero di Hietaniemi mi sono imbattuta per caso,
ma non è vero: l’ho cercato. Osservando il rapporto con un popolo ha con la
morte si può spesso capire molto anche che tipo di rapporto ha con la vita – e
gli Scandinavi tendono ad avere meno tabù, meno scaramanzie di noi verso ciò
che c’è oltre. Di solito i loro cimiteri sono anche parchi bellissimi, in cui i
vivi non hanno timori o disagi di sorta a passeggiare, correre, leggere,
rilassarsi nel medesimo spazio che è condiviso anche da chi non c’è più – come
se ci fosse una maggiore consapevolezza, un’accettazione implicita del fatto
che siamo tutti nello stesso, ineluttabile cerchio ciclico, solo in due fasi
diverse.
E così è stato anche per il cimitero monumentale
della capitale finlandese: si trova all’interno di un bosco di conifere, che
declina dolcemente fino alla spiaggia, e il suo nome significa “Mantello di sabbia” – stesso toponimo
del promontorio che lo ospita. Camminare per i suoi viali alberati significa
lasciarsi alle spalle la città, trovarsi in una foresta e guardare verso il
mare: un connubio perfetto degli ingredienti di cui Helsinki è fatta,
aggiungendoci anche il silenzio e l’introspezione – tanto che diventa quasi una
sua perfetta metafora.
Oltre alla parte antica, il cimitero ha anche una
sezione Ebraica, una Islamica, una Ortodossa ed una militare. Ospita, in un
settore a parte a loro interamente dedicato, tutti gli ex presidenti della
Finlandia – e lo stesso accade con i suoi artisti più celebri. Ci sono tombe
finlandesi, russe e svedesi – che, come spesso accade, lo rendono non solo un
museo a cielo aperto, ma anche un libro di storia.
Le lapidi sono tutte di pietra nera e lucida, con
scritte dorate in caratteri gotici. Ogni tanto passa di corsa uno scoiattolo.
Sulle tombe gli omaggi ai defunti sono fatti di erica, di conchiglie, di
piccole lanterne. La malinconia dell’autunno, con le sue foglie dorate e
rossicce, con i suoi funghi spugnosi che sbucano sulla corteccia degli alberi,
è un abito che gli dona alla perfezione.
Più avanti c’è il mare: gli alberi che si chinano
in avanti a sfiorare l’acqua, le canne che si lasciano accarezzare dalla
brezza, l’orizzonte – malinconico ma bellissimo, perso in lontananza e sempre infinito.
Forse, più che un luogo in cui ci si dice addio, sembra
un luogo in cui ci si ritrova.
Hai descritto perfettamente il fascino di Helsinki: quello da introversa. Una città che ti parla sottovoce, che non vuole attirare l'attenzione ma riesce a dirti delle cose interessanti e a farsi notare. Io ho fatto il percorso inverso, arrivando a Helsinki e poi da qui prendendo il traghetto per Tallinn e devo dire che la prima mi è piaciuta molto di più della seconda. Che nostalgia!
RispondiEliminaSì, Helsinki ha davvero un fascino in apparenza delicato ma che sa toccare corde profonde. Avrei molta voglia di tornarci per restare un po' di più...
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