Ci sono viaggi che non sono soltanto scoperte, ma sono anche ritorni: ritorni alle cose del passato, ai ricordi che tieni chiusi dentro...

La mia scatola di latta del Lago Maggiore La mia scatola di latta del Lago Maggiore

La mia scatola di latta del Lago Maggiore

La mia scatola di latta del Lago Maggiore


Ci sono viaggi che non sono soltanto scoperte, ma sono anche ritorni: ritorni alle cose del passato, ai ricordi che tieni chiusi dentro qualche scatola di latta nascosta sotto al letto dove dormivi da bambina - che sono oggetti semplici ma che, non appena li sfiori, sprigionano un milione di storie.
Il Lago Maggiore è, da Torino, la gita fuoriporta della domenica per eccellenza, e, per me, ogni suo angolo è rivestito di diversi strati geologici di memorie, uno per ciascun anno in cui ci sono tornata. In età adulta le mie visite si sono fatte più sporadiche, ma forse, da un lato, è bene così: le percezioni dell’infanzia sono dotate di un filtro speciale, che fa sembrare tutto più maestoso e grande; quindi li accantono un po’ i ricordi del lago legati all’età adulta, li piego e li metto da parte, e preferisco continuare ad indossare quelli in cui questo posto era il reame incantato della mia infanzia.
Ma, a volte, nei luoghi che conosci bene quasi quanto una dependance di una parte di te, è bello anche tornarci con qualcuno che li vede per la prima volta: farli conoscere a qualcuno che non li conosce significa anche prendere in prestito il suo sguardo e riuscire a vederli dopo tanto tempo con occhi nuovi. E la mia amica Tabby Cat è la persona ideale per sperimentare questo nuovo punto di vista, perché il suo approccio alle cose nuove è sempre carico di entusiasmo e spontaneità.




Il nostro nuovo sguardo su Stresa cade una notte di fine luglio, in cui piove e noi, appena scese dal treno, ci rifugiamo in un’enoteca a brindare con un calice di rosso al weekend che ci aspetta, piluccando formaggio e frutta da un tagliere.
Stresa fa parte di quel pezzo di Piemonte che, forse, si considera già un po’ Lombardia, e, infatti, adesso, per poterci arrivare in treno da Torino bisogna inevitabilmente passare da Milano.
Stresa è un borgo piccolo e raccolto, con un cuore fatto di vicoli racchiusi fra case con finestre in legno ed archi di pietra – ma che indossa sempre un abito elegante, perché è la porta d’ingresso alle isole del lago, gioielli di famiglia dei conti Borromeo.
Il suo cuore antico è minuscolo, ma per me pieno di tante storie: sotto le arcate di Piazza Cadorna, con i suoi bar e ristoranti, per me la meta più desiderata era sempre la cartolibreria all’angolo, che, vista adesso, mi pare molto piccina, ma all’epoca era quasi un bazar delle meraviglie. Ho comprato penne e cartoline: sono queste il tipo di cose che ho nella mia scatola di latta. Ricordo una pizzeria con un pappagallo e un piatto gigante di spaghetti ai frutti di mare, che chissà se erano frutti di lago, invece.
Ricordo le passeggiate fra gli angoli verdi del lungolago, le panchine di ferro battuto, i lampioni bianchi in stile liberty. Il monumento ai caduti per la guerra, e mia nonna che inveiva fra i denti contro i turisti tedeschi suoi coetanei, perché secondo lei da giovani erano venuti tutti qui per ammazzare, e ora ci tornano in vacanza.
“E come fai a sapere se sono venuti qui ad ammazzare o no?”
Ma mia nonna rispondeva che lei la guerra l’ha vissuta, e aveva le sue idee molto oltranziste al riguardo, prive di ogni qualsivoglia razionale pietà.

Il Grand Hotel des Îles Borromées è illuminato e, anche sotto la pioggia, continua ad incantare per la sua eleganza e ricercatezza proveniente da un’altra epoca. È stato costruito subito dopo l’Unità d’Italia e da allora è rimasto inalterato nello stile e nella bellezza. Come quando ero bambina mi ritrovo a pensare non di soggiornarci, ma a chi ci avrà soggiornato nel corso dei decenni, dei secoli – quando venire in vacanza qui era considerato un must elitario, e molti personaggi celebri hanno dormito fra le sue mura. Chissà quali storie avrebbero da raccontare. Ma non lo so, e mi devo accontentare delle mie.

Il Grand Hotel è la regina indiscussa del lungolago, ma il lungolago di Stresa è soltanto un reame di contorno: il centro di tutto sono loro, le tre isole sorelle, le tre perle nel diadema della famiglia Borromeo, le tre sirene che, adesso, con la notte che ha calato il suo mantello scuro e il cielo offuscato dalle nuvole cariche di pioggia, si stagliano davanti a noi, vicine eppure lontanissime, come luminosi mondi a parte, come chimere da raggiungere.
È una promessa, per l’indomani.

Isola dei Pescatori

Le isole da Stresa si raggiungono in battello – è una navigazione velocissima, e potrebbero essere raggiungibili persino a nuoto, se solo si potesse. O se solo io sapessi nuotare decentemente, ecco. Ma questo è un dettaglio che il caldo sole di luglio e l’invitante acqua smeraldina del lago mi avevano fatto momentaneamente accantonare.
I veri nomi all’anagrafe delle tre isole sono Inferiore, Superiore e Maggiore – ma chi gliel’ha dati non doveva avere particolare fantasia o senso poetico; quindi ci hanno poi ripensato i Borromeo a ribattezzarle in maniera più evocativa, per meglio attirare nobili e statisti da tutta Europa prima e turisti poi: Isola Bella, Isola dei Pescatori e Isola Madre. Suona meglio, no?
Comunque, per la cronaca, i Borromeo in origine non si chiamavano nemmeno loro Borromeo: il nome della famiglia era Vitaliani, e lo cambiarono quando, sul finire del XV secolo, ricevettero questo feudo dai Visconti, che si chiamava, appunto, Golfo Borromeo. Anche questo suona meglio, direi.
L’idea di trasformare quei tre grossi scogli, che all’epoca fungevano solo da base per i pescatori e poco più, in qualcosa di significativo e memorabile la ebbero fin da subito – ma cominciarono a metterla in pratica solo un paio di secoli dopo. E, per una volta, si può dire che procrastinare sia stata una scelta saggia – dal momento che furono poi le influenze barocche del XVII secolo a rendere la bellezza di ciò che oggi vediamo così voluttuosa e prorompente.


Isola dei Pescatori

La mia abitudine è sempre di cominciare il giro dall’Isola dei Pescatori, che, pur essendo la più piccola, di cognome fa Superiore – ma significa semplicemente che è quella posizionata più a nord, non che abbia qualche privilegio gerarchico in più.
A me l’Isola dei Pescatori piace perché è diversa dalle altre due: è un po’ come se fosse la loro cugina povera, quella che deve lavorare per campare – ma proprio per questo motivo ha un tipo di fascino diverso, più spontaneo, più semplice. È anche l’unica delle tre ad essere ancora abitata regolarmente, ed è l’unica che subisce il fenomeno dell’alta marea: capita – in primavera o in autunno, un po’ come a Venezia. Ma qui, a differenza che a Venezia, è provocata dall’aumentare delle piogge, che fanno gonfiare il lago fino ad inghiottire tutto il contorno dell’isola. È in realtà un fenomeno meno invasivo rispetto a quello veneziano, e gli abitanti sono stati previdenti: gli ingressi delle case sono tutti nei piani rialzati, oppure dai vicoli interni. Ieri ha piovuto, ma siamo a luglio – il lago è tranquillo.
E proprio questi vicoli interni sono quello che rende questo posto interessante ai miei occhi: a me i vicoli piacciono perché mi piace perdermi nei loro budelli, vagare a caso, scoprire scorci, trovare della bellezza inattesa. I vicoli dell’Isola dei Pescatori sono tortuosi, in salita, fatti di ciottoli. Si insinuano fra casette a due piani con terrazzi spaziosi, creati per poter essiccare il pesce. Alle pareti sono appese reti da pesca – qua e là c’è una cura semplice dei dettagli: panchine di legno, fioriere vivaci, insegne dipinte con la vernice colorata. C’è qualche gatto che sonnecchia, nascosto negli angoli: i turisti li accarezzano, tentano di vezzeggiarli, ma loro li ignorano, continuano a dormire.


Ogni tanto i vicoli si aprono, e lasciano spiare il lago – le sue acque quiete solo in apparenza, qualche tronco morto che vi galleggia, le barche a tinte allegre ormeggiate al piccolo molo, germani e cigni che scivolano via sulla superficie.


Mangiamo in una trattoria il cui dehor dà sull’isola di fronte – la sorella ricca ed elegante. Pesce persico pescato in queste acque, affumicato ed adagiato su un crostino al burro. Prendiamo di nuovo del vino rosso, nonostante il pesce. Io penso che al mondo ci siano persone da vino rosso e persone da vino bianco – poi, ok, ci sono anche persone che riescono ad essere sia da rosso che da bianco a seconda delle circostanze.
Ma io e Tabby siamo decisamente da rosso, in maniera estremista ed oltranzista. Alziamo i nostri calici e brindiamo al Palazzo che si staglia di fronte: la nostra prossima tappa.

Isola Bella

L’Isola Bella sarebbe quella in teoria Inferiore, ma solo per posizione geografica – non per fama o prestigio.
Anche lei, un tempo, era poco più di uno scoglio, con su arroccato un piccolo borgo di pescatori, esattamente come la sorella che le vive di fianco – ma poi ha fatto carriera.
Carlo III Borromeo, un giorno del 1600, decise di trasformarla in una nave – una nave stracolma di delizie e di piccoli, eleganti lussi: il palazzo, solido e candido, è la sua prua; i giardini, ricchi e curati, sono la poppa, da cui si possono ammirare le sfumature blu del lago, il riverbero del sole sulle sue acque, le montagne ed i paesi sulle sue sponde – come se si stesse davvero navigando.
Carlo III fece questo make over allo scoglio come dono per sua moglie Isabella d’Adda: forse lei si sarebbe accontentata di qualche diamante, ma lui volle strafare – e decise anche di dare alla nuova isola così trasformata il nome della sua amata. Solo che forse era troppo lungo, o forse lei stessa preferiva farsi chiamare con questo più gratificante diminutivo – fatto sta che alla fine è diventata Isola Bella, e c’è da dire che è un aggettivo impegnativo ma se lo sa portare bene.


Il Salone dei Balli

La prima metà dell’isola è occupata dal Palazzo, che ha due piani, con una cupola che in realtà serve per impreziosire il suo Salone dei Balli – tinteggiato ed arredato sulle sfumature dell’acquamarina, per riflettere i colori del lago che si specchiano dalle sue ampie finestre. Devo ammettere che è una bella scelta di colore: delicato, elegante e al tempo stesso rilassante. Se fossi stata una contessa Borromeo avrei voluto anch’io una sala da ballo di questo colore – ah, già, ma io non avrei voluto una sala da ballo, odio ballare. Va beh, allora uno scrittoio biblioteca. Anche se poi avrei passato il tempo a contemplare il lago e avrei procrastinato più del normale le mie attività letterarie – ma d’ora in avanti su questo punto potrò sempre addurre l’argomentazione che anche i Borromeo hanno procrastinato nell’addobbare le loro isole, e guarda qui che meraviglia.
L’altra stanza di cui il conte Carlo andava particolarmente fiero è la Sala dei Quadri: ci sono ben 130 dipinti – e non so se per lui quel numero avesse un qualche significato particolare, però sappiamo che ad un certo punto, per poterci arrivare, si è messo a sequestrare, pardon, ad invitare pittori da mezza Europa. Il più laborioso fu il signor Cazzaniga, che però non fu libero di esprimersi a suo piacimento ma gli fu imposto di scopiazzare pedestremente opere altrui, in particolare del Correggio. Chissà se il nostro pittore di corte era contento di ciò o non avrebbe piuttosto preferito esprimere il suo estro (perché anche se ti chiami Cazzaniga non è detto che tu non abbia un estro) – però sta di fatto che anche qui i Borromeo ci hanno visto lungo, dal momento che della “Maddalena” l’unica testimonianza che ci rimane è proprio la copia appesa qui all’Isola Bella, dal momento che l’originale è andato distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale a Dresda. Grazie signor Cazzaniga!

Le Grotte

Devo ammettere che, tuttavia, personalmente al salone dei balli e a tutti i quadri copiati preferisco di gran lunga il fascino un po’ oscuro ed alternativo delle Grotte.
Le Grotte si snodano nel piano sotterraneo del Palazzo, sono a livello del Lago e l’idea in effetti era quella di riprodurre un modo sottomarino, anche se in versione un po’ più cupa – direi quasi goth, non fosse che è decisamente ante litteram. Del resto all’epoca non esistevano ancora le esplorazioni subacquee, quindi probabilmente la loro concezione di “mondo sottomarino” era più legata a fantasie inconsce che non alla realtà. Non importa – il frutto è comunque questo affascinante dedalo di nicchie ed archi di tufo, ricoperti di conchiglie e mosaici di pietre bianche e nere. In ogni grotta è nascosto un tesoro: che siano teche con coralli essiccati, o statue di Afrodite, o riproduzioni a grandezza quasi naturale del Bucintoro veneziano. Nella scatola di latta di Carlo Borromeo ci sono evidentemente reperti più preziosi e voluminosi che nella mia.


Anche Napoleone è stato qui. Qui nel Palazzo, intendo – non necessariamente nelle Grotte, anche se di sicuro ci sarà passato. Gli avevano predisposto in quattro e quattr’otto una stanza in stile Impero a lui completamente dedicata – e sua moglie Giuseppina si innamorò talmente tanto di questa nave fiorita in mezzo al lago che cercò di convincere in tutti i modi i Borromeo a vendergliela, ma loro non cedettero. Suo marito, in compenso, si narra che si lasciò andare ad un atto vandalico incidendo con un coltello una parola su uno degli alberi del giardino – ma, poiché era Napoleone, lo definiamo invece un gesto istintivo e ribelle. Di quale fosse la parola non ne è rimasta traccia: Dumas sostiene che fosse Victoire, Stendhal dice Bataille. Secondo me erano solo le sue iniziali, del resto era un po’ egocentrico.
Del resto, se non hai almeno una storiella legata a Napoleone sei davvero un posto un po’ sfigato – e l’Isola Bella di sicuro non lo è.


Verso i giardini, la poppa della nave, ci avviamo anche noi – ma senza nessuna intenzione vandalica nei confronti delle loro piante. Anche perché non siamo Napoleone, e quindi ci arresterebbero.
Ci sono fiori, disposti con raffinata cura nelle geometrie dei giardini all’italiana, ci sono alberi secolari (tatuati o meno da qualche illustre ospite passato di qua), alcuni dei quali sono agrumi. Agrumi in Piemonte? Ebbene sì, perché il lago gode di un microclima particolare, che gli consente di far prosperare anche questo tipo di piante che, altrimenti, data l’altitudine, sulla carta avrebbero poche chances di sopravvivenza. Ma, fra la flora di questo giardino, ciò che mi affascina di più da sempre, alla faccia di tutte le rarità esotiche che offrono a disposizione, sono le ortensie. Le ortensie mi piacciono perché sono una metafora interessante: cambiano colore a seconda del terreno in cui crescono – un po’ come le persone che sanno apprezzare sia il vino bianco che il rosso a seconda delle circostanze. O, più che altro, come il fatto che ciò che diventiamo dipende anche dalle situazioni in cui abbiamo modo di crescere. Le ortensie che aveva mia mamma nel suo giardino erano sempre e solo rosa, colore dato dal terreno basico – per questo quelle dell’Isola Bella, che spaziano fino al blu intenso (terreno acido), passando anche per il bianco (terreno neutro), spesso abbinando colori diversi su uno stesso fiore, mi sono sempre sembrate molto poliedriche. E un po’ servono a ricordarmi che potenzialmente possiamo riuscire ad essere tante cose diverse – dipende dalle circostanze che viviamo, che ci possono aiutare a tirare fuori aspetti diversi della nostra personalità. Ma, la buona notizia per noi esseri umani è che, al contrario delle ortensie, possiamo quasi sempre essere noi a scegliere in quale tipo di terreno andare ad affondare le nostre radici.


La fauna dei giardini invece è costituita in maniera preponderante da pavoni albini: completamente bianchi ed eleganti come spose o prime ballerine, si comportano esattamente come gli altri pavoni – ovvero facendo la ruota, e, quando la fanno, riescono comunque a catturare lo sguardo anche senza l’ausilio di tutte le sfumature intense di blue e verde che hanno a disposizione i loro simili colorati. La loro ruota sembra un ventaglio di pizzo – oppure una torta nuziale. Ah, e poi come tutti gli altri pavoni si mettono a fare senza nessun preavviso quel richiamo stridulo ed un po’ sgozzato che non ti aspetteresti da un animale dall’apparenza così nobile ed aggraziata. Ma questo da piccola non mi stupiva, perché il cugino di mio papà aveva dei pavoni e il loro verso già lo conoscevo: mi regalava le piume che perdevano, ogni tanto, e mi ero messa a collezionarle. Non sono però mai riuscita a trovare una piuma di pavone albino – c’è ancora quel posto vuoto nella mia scatola di latta.

Il Teatro Massimo

Il Teatro Massimo domina i giardini con la sua regale esuberanza, ed è ciò di cui è costituita la struttura della poppa di questa nave immaginaria in cui l’isola è stata trasformata. È una struttura elegante e barocca, costituita da scalinate a tre piani con terrazzetti sul retro: al centro c’è una fontana zampillante, in cima un unicorno rampante, simbolo della casata, lungo i fianchi soggetti mitologici a grandezza naturale e conchiglie. I Borromeo amavano il teatro, e, un tempo, qui si tenevano vere e proprie rappresentazioni. Oggi lo spettacolo è dato comunque dalla vista sul lago, sul suo orizzonte di acqua infinito, sulla morbidezza dei suoi contorni montani.

Isola Madre

La terza isola è l’Isola Madre, che si chiama anche Superiore – e in questo caso entrambi i suoi nomi lasciano pochi dubbi. È quella più grande, probabilmente anche quella che è stata abitata per prima.
Anche qui i Borromeo hanno un palazzo, che è dove, ogni tanto, vengono ancora tutt’oggi ad abitare: funziona un po’ come per la Regina Elisabetta a Buckingham Palace – se c’è la loro bandiera rossa e blu che sventola in alto sul pennone centrale, allora sono in casa.


Il Palazzo dell’Isola Madre è più sobrio e meno sgargiante rispetto alla dependance gemella dell’isola minore – che forse funge un po’ da salotto bello in cui portare gli ospiti importanti. Ma la cosa interessante è la sua collezione di marionette esposte qua e là nelle teche di vetro: i Borromeo, dicevamo, sono amanti del teatro, e, quando non era possibile avere rappresentazioni con attori in carne ed ossa nella magnifica scenografia dell’Isola Bella, si dilettavano con quelle in miniatura con attori fatti di cartapesta e stoffa. Le minuscole scenografie di sfondo erano state fatte dipingere dallo scenografo ufficiale della Scala, e le marionette – beh, le marionette confermano ancora una volta il loro lato goth ante litteram: ci sono streghe con zampe di gallina, diavoli zannuti, pizzi neri e corsetti, creature dannate degli inferi e principesse fantasma. Guardandole mi viene di nuovo da pensare, come quando ero bambina, che avrei dato non so che cosa per essere anch’io una piccola Borromeo: non tanto per essere bionda e potermi permettere di non depilarmi le sopracciglia, ma per aver potuto giocare con queste meravigliose marionette inquietanti. Avrei potuto inventare un sacco di storie raccapriccianti e divertenti, molto più di quanto già facevo con la mia migliore amica ritagliando fantasmi di carta e disegnando castelli di vampiri. Sì, da piccola ero un po’ come Mercoledì Addams, ma le mie, più che storie del terrore, erano storie di riscatto dei cattivi, che spesso sono tali solo perché non gli è mai concesso di raccontare la loro versione dei fatti – e mia nonna, dopo aver inveito ancora una volta contro i turisti tedeschi, per consolarmi di non poter avere le marionette dark dei Borromeo, mi aveva comprato uno scheletro di gomma ed uno pterodattilo.

Marionette goth

Ah, ma c’era anche un altro motivo per cui avrei voluto essere una piccola Borromeo: il giardino dell’Isola Madre – che, con i suoi angoli frondosi e nascosti e la sua aria un po’ selvaggia, mi è sempre piaciuto molto di più che il giardino perfetto e costruito ad arte dell’Isola Bella. Quello dell’Isola Madre è un giardino all’inglese, non all’italiana come il suo gemello – e non per nulla a volte continuo a sospettare che io di italiano abbia solo il passaporto e poco più. Questo giardino risale al ‘500 ed inizialmente era coltivato a frutto, poi è stato trasformato in un grande giardino botanico, con specie che sono in grado di crescere solo qui grazie al microclima speciale del lago, di cui abbiamo già detto. La cosa bella di questo giardino è che ogni tanto ti sorprende, e, fra le sue frasche scure, apre una finestra circondata di fiori e ti permette di sbirciare sulle acque del lago, che oggi sono incredibilmente trasparenti e cristalline, con sfumature quasi caraibiche. C’è una fontana con ninfee e fiori di loto, più qualche rana, se si guarda bene. E, ovviamente, anche qui qualche pavone bianco che trascina il suo strascico con aria annoiata.



Giardini dell'Isola Madre

I Borromeo sono affezionati a questo giardino ed alle sue piante, tant’è vero che, quando uno degli alberi più antichi e rigogliosi, un cipresso del Kashmir di 25 tonnellate piantato a metà dell’800, venne letteralmente piegato da una tromba d’aria una quindicina di anni fa, spesero una cifra considerevole per riuscire a raddrizzarlo tramite un complesso sistema di cavi di tiraggio. Oggi però l’albero sta bene e sembra essersi ripreso dalle gravi ferite. Sempre sperando che non arrivi qualche altro imperatore francese ad incidergli parole ignote sul tronco.


Il sole sta calando, e ce ne torniamo a Stresa – perché questa è una cosa che, con tutte le volte che sono stata qui, non ho mai vissuto. Non ho mai visto un tramonto sul lago, le mie sono sempre state gite di un solo giorno – fino ad ora.
È un po’ come dire che un’ortensia può essere di un colore diverso se solo le si cambia il terreno, o che un pavone può comunque fare la ruota (e starnazzare come un clacson strozzato) anche se bianco. È un po’ come darsi la possibilità di fare qualcosa di diverso – semplicemente facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che finora, senza nessun particolare motivo se non l’abitudine, ci si era sempre preclusi, e vedere come va a finire.
Ci sediamo sul lungolago, per terra sulle sponde di cemento – le panchine le lasciamo ai turisti tedeschi contro cui mia nonna forse continuerebbe ancora ad inveire, se fosse ancora qui con noi. Le montagne intorno si fanno scure, e anche le sagome delle persone, i lampioni che sono bianchi – forse anche i pavoni, visti adesso, diventerebbero scuri. Nel cielo ci sono nuvole sfilacciate, sfumate come se fossero di zucchero a velo, retaggio lontano della pioggia di stamattina, come una tristezza che ormai si è placata. Il sole morente gli fa cambiare colore: rimangono scure ma non sono più minacciose, diventano solo intense. C’è un potenziale nel dolore – dipende come lo usi, in quale terriccio lo fai radicare.
E, tutto intorno, esplode la sinfonia: anche il lago si colora, anche le isole si vestono di questa nuova luce, che è una bellezza diversa – più pacata, più intima forse.
Se fossi stata una piccola Borromeo – ormai non sarei più piccola, ma penso che ricorderei questa scenografia come la più speciale fra tutte quelle in cui avrei potuto far ballare le mie marionette darkettone.
O in cui avrei potuto far crescere le mie ortensie.


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