Qual
è il vostro animale preferito?
Il
mio, forse ormai lo avrete intuito, è il gatto – e lo è, in realtà, non perché,
come pensano i più, sia morbido e cuccioloso; ma per come sa bilanciare in
maniera perfetta la tenerezza con la crudeltà, la buffoneria con l’eleganza,
l’indole casalinga con quella selvatica, l’indipendenza con la gelosia
patologica. I gatti sono creature complesse: peluche assassini, un po’ ninja e
un po’ divi – ed è questo che amo di loro. Nonché il fatto che abbiamo alcuni
tratti in comune: non sono né ninja né diva, ahimè; però sono indipendente,
solitaria, amo le cose scomode ed ho un’attitudine giudicante nei confronti
della maggior parte dell’umanità.
Ma
tutto questo in realtà era per dirvi che, invece, l’animale preferito di Berna
è l’orso – e chissà cosa ritiene di avere in comune con il ruvido plantigrade
la capitale svizzera. Personalmente io ho sempre avuto in simpatia proprio
l’indole burbera e poco incline alla socializzazione di questo animale, e
peraltro anche a me piace molto il miele ed immergermi nei boschi per ore; ma
per la città elvetica non saprei rispondere. Scarterei i boschi, tanto per
cominciare, anche se nella sua periferia ci sono eleganti e tranquille colline
che ne ospitano ancora qualche ettaro; e di miele in giro non ne ho visto molto
– forse ci rimane l’indole un po’ riservata, dal sapore un po’ rustico e
sicuramente per nulla appariscente che si respira lungo le strade acciottolate
della Altstadt, la Città Vecchia dichiarata patrimonio dell’Unesco e che
certamente avrà dato un importante contributo nello spingere Goethe a definire
Berna “la più bella città mai vista”. E, voglio dire, anche Goethe ai
suoi tempi si sarà sentito ripetere un sacco di volte la fastidiosa frase “Ma
sei sempre in giro!” – ah no, forse a lui non lo dicevano, gli avranno
detto qualcosa del tipo “Che bello che tu abbia l’opportunità di viaggiare
così tanto, grazie per condividere un po’ delle meraviglie che vedi!”,
perché lui era un poeta famoso e quindi funzionava così; però era per dire che
la sua opinione sulla bellezza di Berna era espressa con cognizione di causa, non
è che in vita sua non avesse mai visto null’altro che la periferia di Quarto
Oggiaro.
Berna,
in effetti, un po’ orso lo è – e, fra i suoi edifici medioevali di arenaria
grigio-verde, le sue bandiere, i pittori con le sedie pieghevoli intenti a
dipingere qualche angolo e gli anziani che giocano con gli scacchi giganti
dietro la piazza della cattedrale, ha forse un’atmosfera più da provincia che
non da capitale di una delle nazioni più piccole ma più ricche d’Europa. Lo
dico tuttavia con una connotazione assolutamente positiva: fra le strade
antiche e tranquille, gli edifici eleganti ma non pretenziosi, le file di tetti
rossi stipate nelle anse color smeraldo del fiume Aare, Berna trasmette
pacatezza, serenità. Non brucia di ambizione, ma è perché ha già tutto quello
di cui ha bisogno; e ti accoglie, senza grandi sfarzi ma con la giusta dose di
gentilezza per farti sentire a tuo agio. Poi, come spesso le persone riservate
sanno fare, ti stupisce – e, a dimostrazione che la sua aria modesta non significa
che non sappia il fatto suo, quasi tutti i suoi abitanti parlano fluentemente
quattro lingue (francese, tedesco ed inglese, oltre al dialetto locale). Berna
ha 6 kilometri di portici, che è il record della Svizzera. È un record
abbastanza relativo, perché a Torino ne abbiamo 18, tanto per dire; però non
sono a doppio strato come i lauben bernesi: qui, oltre al pezzo in
superficie sotto le arcate, c’è anche lo sfruttamento delle cantine – si
spalancano le botole con le ante di legno, e, scendendo una ripida scaletta e
facendo attenzione a non battere la testa, anche nel sottosuolo ci sono negozi
e locali.
La
prospettiva della lunga fila di porticati lungo Marktgasse è un colpo
d’occhio notevole, arioso ma al tempo stesso intimo – come se fossero una lunga
serie di scatole e nicchie da scoprire, da spacchettare come regali di Natale.
Ma andiamo per ordine, perché, in realtà, arrivando dalla stazione, il primo
punto di riferimento che si incontra è la Zygtlogge, la Torre
dell’Orologio. Il
grande e colorato orologio presente in questa torre è uno dei tanti capolavori meccanici
che i mastri orologiai della Mitteleuropa hanno donato al pubblico: quattro
minuti prima dello scoccare dell’ora una processione di orsi, galli dorati e
divinità del tempo sfila sotto gli occhi del pubblico, incantandoli. C’è anche
un giullare che, a volte, in maniera apparentemente casuale eppure studiata,
sbuca fuori in anticipo, un po’ a volersi prendere gioco delle regole e della
leggendaria precisione svizzera. C’è un gallo che canta tre volte, e questo è
un riferimento evangelico se vogliamo, ma in realtà la cosa interessante è che
per qualche secondo quella che gli esce dal becco è la melodia di God save
the Queen: l’interrogativo sul perché un simbolo della capitale elvetica renda
omaggio alla monarchia britannica è presto e facilmente spiegato con il fatto
che, in realtà, fino al 1870, questo era anche l’inno nazionale svizzero. Solo
come note, le parole erano diverse, anche perché la Svizzera non ha mai avuto
nessun regnante per cui evocare la protezione divina: chi abbia copiato chi non
si sa, ma questo doppione era cominciato a diventare imbarazzante come quando
ad una festa si indossa lo stesso vestito – e, ubi maior, l’impero
britannico lo vestiva meglio, per cui la confederazione elvetica si scelse un
altro inno. Oltre
a giullari ribelli e galli filoinglesi, questo gioiello dell’orologeria
svizzera è anche in grado di mostrare, con un’infallibile precisione che dura
ormai da secoli, anche il giorno, la settimana, il mese, il segno zodiacale e
la fase lunare in cui ci troviamo: informazioni che oggi ci paiono piuttosto
scontate, ma che per l’epoca non lo erano. Ma, soprattutto, una leggenda
metropolitana più recente lo designerebbe come fonte d’ispirazione per la
formulazione della teoria della relatività di Einstein: lui all’epoca lavorava
come impiegato all’Ufficio Brevetti bernese e dalla finestra vicino alla sua
scrivania scrutava continuamente la Zygtlogge e lo scorrere del tempo che
segnava, nonché gli autobus che gli passavano accanto ad intervalli cadenzati.
Da qui si ritrovò un giorno a pensare che, di fatto, per una legge della
fisica, la velocità di un oggetto è sempre relativa a qualcos’altro – e quindi
ad ipotizzare cosa sarebbe successo se quegli autobus fossero stati in grado di
muoversi non alla velocità relativa al tempo scandito dall’orologio, bensì alla
velocità della luce. Ecco, a me poi questo collegamento non è chiarissimo
perché ovviamente non sono in grado di entrare nella mente di Einstein, quindi
temo di non essere nemmeno stata molto brava a spiegarvelo – però diciamo così:
la Torre dell’Orologio di Berna sta alla teoria della relatività così come la
mela caduta dall’albero sta a quella della forza di gravità di Newton.
Dopo
esserci lasciati alle spalle la Zygtlogge, proseguendo lungo i porticati di
Marktgasse, l’elemento distintivo che maggiormente colpisce l’attenzione sono
le fontane: ce ne sono ben 11, sparse ai crocevia principali delle strade della
città vecchia, e sono costituite da un’alta colonna bianca, con in cima qualche
curioso e variopinto personaggio che richiama la storia e/o il folklore locale.
Queste sculture colorate risalgono al 1545, e le più famose sono l’orso con
addosso un’armatura, simbolo della città, e un orco che mangia i bambini: per
alcuni è una rappresentazione mitologica del dio Crono, per altri è
semplicemente un’immagine carnevalesca che serve come monito minaccioso per i
ragazzini più vivaci – ma esiste anche una leggenda più macabra che narra che
sotto questa fontana venissero sepolti vivi i figli indesiderati delle monache
di un vicino convento, i cui cadaveri in questo modo, tramite la rete di canali
sotterranea, finivano direttamente dentro il fiume Aare. Oltre a queste ci sono
anche la statua di un tiratore, accompagnato da un piccolo orso che imbraccia
un fucile, un macellaio che forse è in realtà i gigante biblico Sansone, una
rappresentazione della giustizia, una di Mosè, un messaggero, un balestriere,
un suonatore, una portatrice d’acqua, che ha le sembianze della benefattrice
Anna Seiler, la quale donò alla città un ospedale – e poi ne esiste anche una
nascosta, nelle cantine della Cancelleria di Stato, che di fatto è la più
antica cisterna di Berna. Ma queste fontane non sono solamente una curiosità un
po’ grottesca, o un simbolo di quella che è stata la storia di questa città: un
tempo erano anche il fulcro della vita sociale, dove ci si incontrava per
prendere l’acqua e lavare i panni e intanto si conversava e ci si scambiava
informazioni – una versione non alcolica del bar di paese, insomma. A tal
proposito è importante sapere che, fino al 1870 circa, a Berna non esisteva
l’acqua corrente nelle case, per cui le fontane avevano un ruolo fondamentale
nella sussistenza quotidiana. L’acqua corrente era preziosa, e un’ordinanza
comunale dell’epoca consentiva per ogni nucleo famigliare l’approvvigionamento
di appena 3 litri d’acqua al giorno – ma si poteva aggiungere anche un litro e
mezzo di vino. Anche negli ospedali si dava da bere vino ai pazienti, per
risparmiare la preziosa acqua per scopi igienici. A me personalmente non sembra
una cattiva idea, ma non vorrei venir tacciata di alcolismo. Esiste peraltro
anche una leggenda a tema: la notte di Natale, ai rintocchi della mezzanotte,
l’acqua delle fontane veniva trasformata appunto in nettare rosso – che, come
ci racconta il Vangelo, dovrebbe anche essere uno skill che fa parte del ricco
curriculum di Gesù; ma in questo caso, a quanto pare, è opera del suo rivale il
diavolo, che come sempre invidioso, come del resto compete alla sua natura,
vuole dimostrare non solo di essere in grado di fare la stessa cosa, ma di
farlo molto più frequentemente che non ad uno sporadico banchetto di nozze in
cui il catering aveva dato pacco. Ma purtroppo per lui lo fa invano, perché,
dal momento che è frutto di un intervento demoniaco e non di un corretto
processo di vinificazione, la leggenda impedisce di berlo. Cosa si rischia se
per caso lo si fa, non ci è dato saperlo. Certo, credo dipenda anche dal
livello di qualità del vino: magari Gesù l’avrà fatto una volta soltanto ma era
Barolo d’annata, quello di Satana magari è vino in cartone buono solo per
cucinare l’arrosto. O forse no. Ma nessuno l’ha mai assaggiato, quindi non
possiamo saperlo.
Dietro
l’angolo, dopo le fontane più o meno leggendarie, i doppi portici e gli orologi
muse della fisica, ci imbattiamo nel Münster, ovvero la cattedrale, che
è dedicata a San Vincenzo di Saragozza, per questo gusto tutto svizzero di darsi
un tocco medievale che a quanto pare è connaturato nel DNA già dal Medioevo –
risale al ‘400, e, per la par condicio, è stata sia cattolica che
protestante. Ha un portale decorato con un altorilievo che rappresenta il
Giudizio Universale – che è indubbiamente pregevole, ma che va più che altro
ricordato perché fra i personaggi rappresentati c’è anche il borgomastro di
Berna, il quale ovviamente va in paradiso, mentre quello di Zurigo (con il
quale deduciamo ci fosse una rivalità particolarmente accesa) precipita nelle
fiamme dell’inferno (dove speriamo per lui che almeno si serva vino decente). La
piazza su cui sorge il suo ingresso principale è piccola e raccolta e viene
completamente dominata da questa imponente presenza di ricami gotici nella
pietra, in mezzo ai quali spicca la guglia più alta della Svizzera: ora, non so
se questo record relativo, un po’ come quello del kilometraggio dei portici, sia
degno di nota anche in senso assoluto – però in fin dei conti è pur sempre la
capitale, quindi lasciamo che lo faccia notare (soprattutto se batte Zurigo);
anche perché ha oggettivamente una sua imponenza, come un rostro ricoperto di
tanti altri artigli di marmo più piccoli, ed è la prima cosa che si nota anche
quando si passeggia nel piccolo parco retrostante la cattedrale, il Münsterplatform,
uno spiazzo verde in cima ad una scarpata con vista sul fiume e sulle colline,
che il giorno della nostra visita era invaso da tante bancarelle di artigiani. Ma
dicevamo degli orsi – oltre ad essere rappresentato pressoché ovunque, sia
sottoforma di peluche che di statua folkloristica sulle fontane, nonché
spiccare sullo stemma araldico della città, l’orso (in tedesco Bär) ha
anche dato il nome a Berna. La leggenda vuole che il suo fondatore Bertoldo V
duca di Zähringen l’abbia voluta battezzare in onore del primo animale ucciso
durante una battuta di caccia svoltasi dove adesso sorge la città vecchia: una
contro-leggenda messa in giro da qualche detrattore in realtà dice che il primo
animale ucciso fosse un coniglio e non un fiero plantigrade – ma insomma, non
credo che ci sia stata una competizione fra gli abitanti del bosco a quattro
zampe per farsi ammazzare per primo e farsi intitolare la nascente capitale. Comunque,
giusto per ribadire il concetto e contraddire i detrattori di Bertoldo, Berna
continua ad essere molto legata agli orsi, direi in maniera quasi ancestrale –
nel senso che non si accontenta di simboli e riproduzioni, ma ci tiene ad
ospitare degli orsi vivi, in carne ed ossa. O, forse, qualcuno potrebbe dire “imprigionare”,
dal momento che gli ospiti in linea teorica sono liberi di andare e venire come
e quando gli pare, o, perlomeno, dal momento che non sarebbe comunque stato
fattibile lasciare degli orsi liberi di passeggiare per la città come
cagnolini, di solito gli si fornisce una sistemazione un po’ più comoda rispetto
alla cavità circolare di appena 3 metri e mezzo di profondità in cui erano tenuti
fino a pochi anni fa, come mascotte sicuramente poco consenzienti e molto
rassegnate. A partire dal 2009, la Bärengraben è stata trasformata in un
parco di 6 mila metri quadri che si snoda lungo il fiume con alberi e terrazzamenti,
soprattutto in seguito alle forti proteste da parte degli animalisti e alla
morte per eutanasia di Pedro, uno degli orsi “ospiti” della fossa, che ha
finito per essere sopraffatto fisicamente e psicologicamente da questa
ospitalità più simile ad un ergastolo. Oggi Finn, Björk e Ursina possono
perlomeno sgranchirsi un po’ di più le zampe. Il parco è stato progettato da
biologi esperti che hanno cercato di riprodurre l’habitat naturale in cui di
solito gli orsi vivono in natura – ad esempio anche il cibo non viene loro
gettato, ma nascosto all’interno dei tronchi o sotto la terra, in modo tale da
farglielo cercare come farebbero se fossero liberi e garantire loro uno stile
di vita più simile a quello “vero” e, nelle intenzioni di chi ha ideato tutto
ciò, anche più dignitoso rispetto a prima. A parte i turisti che si assiepano
dietro i vetri per osservarli. A parte il fatto di essere in città e non nei
boschi, e a parte il fatto di essere comunque dentro una gabbia, per quanto più
grande. Forse la teoria della relatività avrebbe potuto essere formulata qui,
anziché vicino alla Torre dell’Orologio.
Ma
al ponte Nydeggbrücke non si va solo per far visita agli illustri carcerati a
quattro zampe della Fossa. Da
qui si sale verso il Matte, quartiere benestante in collina dove
possiamo trovare una torre verticale ideata da Gustave Eiffel (e anche in questo
caso il destino di Berna è stato cedere gli onori del palcoscenico alla
versione più famosa appartenente ad un’altra nazione), la fabbrica originale
del cioccolato Lindt e, soprattutto, un fantasma ed una leggenda relativa ad un
tesoro di gioielli d’oro sepolto da qualche parte dalla gilda degli orafi per
evitare che finisse nelle mani delle truppe napoleoniche sul finire del XVIII
secolo – e i Francesi per ripicca qualche anno dopo gli fregarono la fama della
Tour Eiffel. Ma noi fin lì non ci siamo arrivate: ci siamo fermate prima, al
Giardino delle Rose, che si incontra salendo fra eleganti stradine alberate che
ospitano ville ricche ma al tempo stesso accoglienti in maniera quasi rustica,
come del resto lo è l’intera città. In questo parco ci sono più di duecento
specie diverse di rose – ma il motivo principale per cui si va, soprattutto se,
come nel nostro caso, si è a novembre e le fioriture sono ormai un lontano
ricordo, è il panorama. O meglio – il panorama in compagnia di Einstein, che è
stato immortalato seduto su una panchina in bronzo che domina una vista dolce e
spettacolare di Berna, con i tetti rossi, le guglie delle chiese e del Münster
che si accoccolano fra le anse turchesi del fiume, in questo momento resa
ancora più incantevole dalla luce dorata e dai colori autunnali. Da
qui salutiamo Berna, e ci diciamo che è davvero tutto relativo: il tempo che
scorre, il potere che si pensa di avere, il modo in cui si vuole esprimere
prestigio, la prigionia e la libertà, la giurisdizione su inni nazionali e
torri di metallo, l’essere gatti o l’essere orsi – e il decidere che il vino (o
altri piaceri della vita a propria discrezione) sia opera divina oppure
diabolica. Tutto dipende da che cosa si sceglie: quale sponda, quale modo di
vivere e vedere le cose – e, quelle che vi ho raccontato oggi, sono state le
scelte di Berna.
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