Chi era Walther von der Vogelweide ? Probabilmente il suo nome non vi dirà molto, e magari starete facendo anche un po’ fatica a pronunciarl...

Klausen - sulle tracce di Walther Klausen - sulle tracce di Walther

Klausen - sulle tracce di Walther

Klausen - sulle tracce di Walther

Chi era Walther von der Vogelweide? Probabilmente il suo nome non vi dirà molto, e magari starete facendo anche un po’ fatica a pronunciarlo, mentre lo leggete e provate a sillabarlo per vedere se vi si accende qualche campanello in qualche recondito ed impolverato cassetto della memoria. Però, se siete stati a Bolzano, sarete sicuramente passati in una piazza a lui dedicata, dal momento che è quella principale del capoluogo altoatesino – solo che hanno pensato bene di denominarla semplicemente “piazza Walther”: un po’ perché avranno giustamente dedotto che i non nativi di lingua teutonica avrebbero avuto qualche difficoltà nel dare indicazioni; un po’ perché da quelle parti con il caro vecchio Walther c’è una certa confidenza, e viene spontaneo chiamarlo per nome.

Nelle zone di lingua tedesca e fra gli studiosi di letteratura medievale, in realtà, il signor Walther gode di una certa fama: è stato una sorta di Petrarca, o, forse, addirittura di Dante germanico, un prolifico poeta del 1200 che trattò nella sua opera di politica e religione, ma anche dei piaceri della vita e che fu di ispirazione intellettuale per molte generazioni.

Bene – ma perché stiamo parlando di lui? la domanda sorge spontanea.

In realtà, più che di lui, io vorrei parlarvi di Chiusa, o Klausen che dir si voglia, a seconda che privilegiate la versione italica o quella tedesca – un piccolo gioiello dell’Alto Adige medievale e variopinto incastonato lungo il fiume Isarco, nello stretto passaggio scavato sotto la rupe di Sabiona (o Saben), rispetto alla quale, come suggerisce appunto il suo nome, fa infatti da chiusa.

E Walther – beh, in teoria è nato qui.

Dico “in teoria” perché in realtà nessuno sa con esattezza dove sia nato Walther, e tutto ciò che abbiamo sono, appunto, solamente delle teorie ipotetiche: il nostro amico poeta in vita sua scrisse moltissime cose, alcune simpatiche ed altre meno, ma non pensò mai di indicare con sicurezza dove fosse nato – probabilmente perché non lo sapeva bene neppure lui, oppure perché, forse, nel Medioevo non si faceva molto caso a questo tipo di informazioni. In effetti perché sapere in quale punto esatto di un’area circoscritta fra l’Alto Adige e la bassa Austria abbia visto la luce sia così importante non saprei dirlo: immagino, come sempre in questi casi, che sia più che altro un punto d’orgoglio per la località in questione, e, naturalmente, un solido pilastro su cui poter costruire qualche strategia di marketing.

Walther comunque lasciò dietro di sé diversi indizi, e molti studiosi decisero che sarebbe stato interessante mettersi ad analizzarli ed effettuare dettagliate ricerche in merito: la teoria secondo la quale l’iconico poeta nacque da queste parti, basata sulla presenza di un simbolo araldico molto simile al suo stemma presente in un antico maso della zona, risultò essere una delle più accreditate – tant’è che, quando fu esposta, sul finire dell’800, Chiusa/Klausen diventò immediatamente una meta turistica gettonatissima fra gli artisti in pellegrinaggio e alla ricerca di ispirazione. Marketing, ve l’ho detto.

Walther, del resto, era una specie di icona, con la sua aria malinconica, il suo inneggiare alle cose belle della vita e la sua lingua (anzi, penna) tagliente nei confronti dei politici. I poeti (o aspiranti tali) dell’epoca romantica lo avevano un po’ idealizzato, aspirando a vivere l’esistenza priva di obblighi ed interamente votata all’arte che ritenevano lui avesse avuto: se nel XX secolo c’era il sogno americano, nel XIX c’era quello medievale – passare le giornate a cantare nei giardini, bere, amoreggiare e cercare ispirazione senza nessun limite se non quello del proprio talento. Insomma, #belikewalther. E, chissà, forse il pellegrinaggio a Klausen non aveva solo una valenza simbolica e di omaggio al proprio idolo, ma magari era per loro anche una specie di rituale propiziatorio, un voler ingaggiare qualche vibrazione positiva che c’è nell’aria per poter riuscire a percorrere lo stesso suo percorso. Forse Walther sarebbe stato lusingato da tutto ciò. O forse avrebbe scosso la testa tacciandoli di ingenuità – perché ovviamente la sua libera arte tanto libera non era: Walther vagava come tutti di corte in corte in cerca di un mecenate; ma, poiché aveva questo vizietto di dire senza filtri cosa pensava, non stava particolarmente simpatico a nessun personaggio importante. Quindi, niente: per capirci, se fosse stato un grande attore di teatro, diciamo che, per campare, ogni tanto era costretto a fare qualche spot delle merendine. La vita di Walther era luccicante, insomma – ma non era oro. Questo però ai suoi seguaci non lo diciamo: lasciamoli sognare ancora un po’ e godersi le bellezze di Klausen.

Perché diciamoci la verità: in fin dei conti Chiusa tutta questa popolarità se l’è meritata.

Facile dire che vieni qua in villeggiatura per fare un pellegrinaggio sabbatico in onore del tuo idolo poeta: fosse nato in un triste paesino nella zona industriale mediopadana scommettiamo che non avrebbe avuto lo stesso richiamo?

Il marketing, lo dico sempre, può essere ruffiano finché vuoi, ma, se si mette a vendere una scatola vuota, prima o poi casca l’asino.

E la scatola di Klausen è tutt’altro che vuota: è piena di colori pastello, scorci pittoreschi e richiami medievali. Insomma, la città di Walther perfettamente conservata rispetto a com’era ai tempi di Walther – anzi, meglio.

[Io peraltro sto continuando a chiamarlo Walther non perché ci troviamo in particolare confidenza, ma perché anche io come gli urbanisti di Bolzano ho qualche difficoltà a memorizzare e sillabare il suo cognome – ecco, se fosse stato una celebrità contemporanea, oltre a fare gli spot delle merendine, gli avrebbero sicuramente imposto anche un nome d’arte]

Il centro antico di Klausen è una bomboniera minuscola, ma ciò nonostante è suddiviso in due zone, denominate Città Alta e Città Bassa: la pendenza che le separa è minima, ma fondamentalmente i due toponimi indicano un orientamento geografico rispetto al nord. 

Le due aree sono collegate da una via, che attraversa completamente questo cuore storico della città, e su cui si affacciano alti edifici colorati dalla pianta stretta ma che si sviluppano in profondità, arrivando ad affacciarsi fino al fiume con i loro balconi fioriti.

Questi edifici oggi ospitano ristoranti, abitazioni private ed attività più o meno artigianali: un tempo erano osterie ed alberghi, le cui insegne di ferro battuto ancora si stagliano come intricati diademi gotici ad adornare lo skyline di mura strette e variopinte che si staglia contro il cielo blu – forse uguale adesso a com’era parecchi secoli fa. O perlomeno così ci piace immaginare. I vicoli che si intrecciano dietro l’arteria principale hanno il nome degli antichi mestieri che vi si svolgevano – e gli attrezzi esposti sulle mura delle case fanno da ulteriore souvenir di quel saper fare di un tempo.

Quando ci sono andata c’erano anche molte installazioni a forma di bicicletta - o, per meglio dire, fatte con vecchie biciclette (dipinte, decorate con fiori, appese alle facciate degli edifici come le insegne medievali), ad abbellire e a colorare ulteriormente le vie del paese, in onore del giro d’Italia che fa tappa anche qui. Le biciclette, ormai forse lo sapete, sono la mia kriptonite: sono una delle tante fobie che non ho la benché minima intenzione di vincere; ma, al tempo stesso, tanto le detesto quando sono movimento, quanto mi affascinano quando sono ferme, e sono fra i miei soggetti fotografici più gettonati. Non c’è nessuna dietrologia psicanalitica, credo: è solo un puro fattore estetico – credo diano un tocco retrò e semplicemente genuino ad una composizione, e al tempo stesso riescono a dare movimento ed armonia. O almeno così mi pare: non ho mai fatto un corso di fotografia, quindi ciò che scatto ed i motivi per cui lo ritraggo spesso non hanno una spiegazione artistica o razionale – semplicemente mi pare che stiano meglio così; ma è la mia personale opinione, e magari esistono molti manuali che potrebbero contraddirla.

Convento di Sabiona

Ad un certo punto, in mezzo ai vicoli, si trova l’imbocco di una salita.

Le indicazioni incise su dei pannelli di legno indicano che si tratta della strada per il Convento di Sabiona, o, come dicevamo, Kloister Säben, se si preferisce – un monastero benedettino che occupa la parte superiore dello sperone di roccia che sovrasta il borgo.

In questi casi, di fronte a questi passaggi semi-segreti, stretti e che probabilmente preannunciano strade tortuose o poco battute, mi scatta subito la Sindrome di Alice e mi compare davanti agli occhi un Bianconiglio invisibile che mi sento obbligata ad inseguire, in maniera quasi compulsiva: solo che, nel mio caso, non precipito in una tana, ma mi arrampico lungo una mulattiera in salita fra alberi e fiori, che dura all’incirca 30 minuti ed è una via crucis – nel senso letterale del termine. Intendo che è un percorso con le stazioni commemorative della passione di Cristo – ma non è l’unico caso in cui, per farla, si è scelto un sentiero impegnativo che, per chi non abbia i polmoni e le gambe sufficientemente allenati, un po’ di patimento lo regala come gentile omaggio della casa, per riuscire ad immedesimarsi meglio nelle sofferenze sacre narrate.

L’attuale convento è un edificio del XVII secolo, che a sua volta sorge sulle rovine di un precedente complesso, già sede vescovile fino agli albori dell’anno Mille, distrutto da un incendio nel corso del secolo precedente. Oggi ospita delle suore di clausura, che credo godano di una vista davvero mozzafiato sulla fetta di creato che le circonda, ed ha annessa una chiesa, dedicata alla Santa Croce, con alcuni affreschi e trompe l’oeil interessanti – nonché spesse e freschissime pareti che, dopo la via crucis in salita sotto il sole di agosto, sono il miglior sollievo.

Dal Convento parte un sentiero che si snoda fra le immense vigne e meleti che lo circondano.

Al tramonto c’è una luce bellissima, con i raggi acuti e morenti del sole che sciabolano attraverso le nuvole, e rendono tutto quanto (le coltivazioni, la sagoma imponente del monastero, le montagne scure, la sagoma serpeggiante dell’Isarco giù da basso) dorato e trafitto di ombre – ma di quel tipo di ombre in chiaroscuro che nascono a quest’ora del giorno e che sembrano avere come unico scopo quello di far risaltare le luci ancora di più.

Chissà se il talentuoso Walther, che, come tutti coloro che sono inclini alla malinconia, aveva un dono speciale per riuscire a vedere e ad apprezzare le cose belle della vita, era davvero nato qui.

Suppongo che non lo sapremo mai – però credo di poter immaginare, con un certo margine di certezza, che sicuramente gli sarebbe piaciuto.


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