gennaio 12, 2020
Vai al mare se vuoi imparare qualcosa sulle tue profondità, vai in montagna se vuoi imparare qualcosa sulla tua forza - diceva qualcuno, ma non ricordo bene chi.
Forse ero io, in realtà.
Qualcun altro ancora diceva che quando una persona a cui vuoi bene ti consiglia un libro, la vai subito a cercare in mezzo alle pagine. Tabby Cat è da sempre una delle mie pusher di letture più affidabili: mi ha fatto scoprire mondi vittoriani fatti di ombre e segreti, ribellioni che significano semplicemente ricercare se stessi, anti-eroine oppresse da regole non scritte, corsetti stringenti e stereotipi ancor più soffocanti. Sono sempre state letture che mi hanno aiutata a trovare risposte ma anche domande, e in cui mi sono sempre imbattuta in qualcosa che sono stata, o che avrei potuto essere.
E - ok, come al solito mi sto perdendo in qualche volo pindarico, ma qui il collegamento è semplicemente un'altra celebre citazione, quella che dice che leggere e viaggiare sono similitudini reciproche, che il mondo è un libro e che dove nasciamo è una pagina, per sfogliare tutte le altre dobbiamo prendere aerei, o treni, o i nostri stessi piedi e muoverci fra le righe del mondo per scrivere nuove storie.
Questa me la ricordo chi l'aveva detta - era Sant'Agostino.
Quel che volevo direi io, invece, era che Tabby Cat da ormai qualche anno mi parla con entusiasmo della Val di Mello, riserva naturale della Valtellina appena sopra Morbegno - ed ero molto curiosa di vederla con i miei occhi.
Era un mattino di fine settembre, qui le temperature erano ancora calde, là già quasi frizzanti. Lasciamo la macchina nel parcheggio a San Martino, infiliamo le scarpe da trekking e saliamo in mezzo alle case per raggiungere l'imbocco della riserva.
Il sentiero è inizialmente quasi piano, scivola con poche curve e molti sassi fra prati scoscesi che sono anche pascoli: le mucche, l'ho imparato da tutte le volte che in Cornovaglia ci hanno bloccato un autobus per venire a guardare dentro i finestrini, sono animali curiosi - ce n'è una nera che, appena ci vede sbucare dal fondo della valle, ci trotta decisa incontro. Poi forse realizza che siamo meno interessanti di quanto pensasse, oppure viene presa da una ritrosia dell'ultimo minuto e ci scarta con nonchalanche, facendo finta di nulla e dirigendosi verso una sua compare dal manto fulvo che stava facendo colazione indifferente con un ciuffo d'erba qualche metro più in su.
Sullo sfondo ci sono le montagne, che, con la luce tenue delle prime ore del mattino, hanno un profilo azzurrino - quasi si confondono con il cielo, e sembrano vicinissime ma al tempo stesso molto lontane.
Però ci camminiamo incontro.
I laghi, in montagna, arrivano quasi sempre come una sorpresa: te li ritrovi di fronte più o meno all'improvviso, e sono simili a specchi - freddi, cristallini, che servono al cielo ed alle montagne per vedersi, e a noi per riuscire a cogliere un pezzo d'infinito, racchiuso nel riflesso confinato fra le sue sponde.
Sono fatti di silenzio e di altre cose trasparenti che però, in realtà, ne contengono molte altre - cose che si vedono anche da fuori, ma che, riflesse lì dentro, sembrano diverse: sfumate ma al tempo stesso più intense, come se, guardandosi nello specchio del lago, riuscissero a far trasparire la loro anima.
Ci inginocchiamo, bocconi, non per venerarlo, ma per scattargli qualche foto dal basso, che riveli il riflesso dello specchio, e cosa nasconde al di sotto della sua superficie - sassi, foglie e qualche altro segreto. Che, ok, forse in effetti è il nostro modo per venerarlo.
Questo lago, ci han detto, fino ad un paio di anni fa non esisteva.
E' stato creato da una frana.
Che, a mio parere, è una metafora meravigliosa di come eventi apparentemente disastrosi possano a volte portare a conseguenze bellissime.
Altre volte invece gli eventi disastrosi portano solo conseguenze disastrose - ma va beh, adesso volevo essere ottimista.
"Ecco, quello è il Monte Disgrazia".
Ah ecco, avevo appena parlato di ottimismo.
Però è così bello - nobile, nella sua imponenza. Non sembra una disgrazia a vederlo così, ma si sa che io non sono molto brava a valutare queste cose e che spesso un aspetto nobile mi sa trarre in inganno.
"Ma noi non ci andiamo fin lassù, vero?"
"Ah, ma comunque in realtà Disgrazia non è il suo vero nome"
"Ok - mi fa piacere che non sia stato iscritto all'anagrafe così, ma il fatto che se lo sia guadagnato come soprannome non mi tranquillizza particolarmente"
No, no, no - a quanto pare il povero monte in realtà si chiama "Disghiaccia" in dialetto valtellinese, l'hanno solo italianizzato male.
Anche perché non mi è chiarissimo cosa voglia dire: che si sghiaccia meglio e prima di tutti gli altri? Che non si sghiaccia mai? Che ghiaccia il doppio?
Ci rimugino, ma non troppo - perché nel frattempo arriviamo ad un altro specchio d'acqua ricco di meraviglie. O meglio, ricco di angolazioni meravigliose da cui fotografarlo.
Già c'era da immaginarlo - che il tempo medio di percorrenza del sentiero era di 2 ore e mezza, ma, con me che scatto foto ad ogni angolo, arriveremo tranquillamente a quattro.
Questo è un laghetto minuscolo e verde smeraldo - non riflette cielo e montagne, ma lascia intravedere, con la disarmante innocenza di un libro aperto, tutte le rocce e il terriccio torbido del suo fondale.
Si chiama Bidet della Contessa, e, ora, provare ad immaginare quale possa essere la storia dietro a questo nome e a fantasticare su chi sia la nobildonna in questione, che amava immergere le proprie parti più intime nelle acque gelide e verdoline di questa pozza, mi distoglierà definitivamente dalle elucubrazione sul Monte Disgrazia Che Disghiaccia.
Me la immagino un po' ribelle questa contessa, allergica alle crinoline e agli obblighi dell'etichetta, che, appena poteva, indossava di nascosto vestiti da uomo e partiva per scalar montagne rubando cavalli dalle scuderie, per la disperazione del conte suo padre che disperava la prospettiva di farla accasare con un buon partito, facendole anche mettere la testa a posto.
O, magari, non era affatto una nobildonna, ma una comune paesana, che, però, per la sua riservatezza e per i suoi modi di fare garbati ma al tempo stesso troppo distaccati, si era guadagnata questo soprannome un po' beffardo perché tutti pensavano che si desse un sacco di arie e si credesse superiore agli altri - quando in realtà amava semplicemente la solitudine e il contatto con la natura mozzafiato della sua valle.
Non lo sapremo mai, suppongo - quindi probabilmente posso scegliere io la versione che più aggradi.
E anche voi, ovviamente, potete fare lo stesso.
Anzi, vi lascio piena facoltà di scelta perché, nel frattempo, siamo finite dentro un bosco incantato e quindi le fucine della mia immaginazione sono già alle prese con altre fantasticherie: gli alberi sono altissimi, corrono verso il cielo in un tripudio di verde e sembrano binari paralleli che, in lontananza, verso l'orizzonte, sembrano toccarsi. I tronchi caduti e i massi sono ricoperti di muschio sgargiante, soffice, quasi di velluto. Qua e là, dentro nicchie di alberi cavi o di pietre accatastate, si trovano tesori: funghi rossi, pigne, rami e foglie caduti.
Dietro, in lontananza, ruggisce (o, forse, canta) un torrente a tratti impetuoso, a tratti trasparente, sfumato di verde ed azzurro, da cui emerge qualche formazione rocciosa dai riflessi rosati - come se volesse concorrere anch'essa all'incanto.
Un'altra delle tantissime cose che ho letto e di cui non mi ricordo l'autore diceva che, se si scuote un bosco, si faran cadere un sacco di gnomi, fate e tesori - secondo me ci si può trovare anche qualche strega, amante della solitudine e alla ricerca di una forma di bellezza non convenzionale, quella che è fatta non soltanto di apparenza ma anche di sostanza, coerente fra dentro e fuori, fra il silenzio e l'armonia serena e vibrante che si respira camminando in mezzo a tutta questa meraviglia.
Già - solo che le streghe non le faresti cadere semplicemente scuotendo un bosco: loro sanno aggrapparsi con molta forza alle cose che gli appartengono.
Silenzio?
Beh, in realtà si fa per dire. Nel giro di pochi minuti il nostro panorama idilliaco si è improvvisamente popolato di un numero incredibilmente alto (e probabilmente sconfortante) di altri escursionisti: salgono su a gruppetti di quattro o cinque, a volte anche solo in due, in alcuni casi anche con bambini o cani. Parlano fra loro ma ogni tanto si chiamano anche gli uni con gli altri, come se si conoscessero.
"Ehi, voi siete della Produzione?"
"Come, scusa?"
Insomma, viene fuori che i sentieri dei nostri boschi magici e le sponde dei nostri laghetti cristallini sono stati invasi da una gita aziendale.
Una. Gita. Aziendale.
Ma perché - pensiamo io e Tabby mentre addentiamo pane e bresaola sedute su una grossa roccia piatta con gli scarponi da trekking slacciati, circondate da questo esercito di dipendenti di una non meglio precisata azienda valtellinese, tutti con gentili consorti, figli, cani, suocere e pesci rossi al seguito, che corrono, saltano, mangiano, urlano, si inseguono, criticano, pontificano, spettegolano, discutono intorno a noi.
Saranno un centinaio.
O forse qualche migliaio, non saprei.
Sono le quattro del pomeriggio, e decidiamo di arrenderci alla superiorità del Team Building - avviandoci, stanche ma soddisfatte, lungo la via del ritorno, dando un'occhiata mesta al Bidet trasformato ormai in una piscina comunale a Ferragosto.
Una mucca dall'aria truce ci si avvicina da dietro una staccionata:
"Che brutta 'sta mucca"
"Ma dai, poverina..."
"No, scusa, è oggettivamente brutta: guarda che aria ingrugnita che ha"
"Per forza ha l'aria ingrugnita, le hai appena detto che è brutta: mica può esserne contenta"
"Va bene, scusami mucca: sono sicura che sei molto bella dentro"
Però forse le scuse non le accetta, perché continua a guardarci con aria scocciata: anziché avere l'atteggiamento festoso e curioso che hanno di solito le altre mucche quando un umano si appropinqua, lei pare oggettivamente un po' irritata, come se stesse meditando di spingerci via dal suo territorio a testate.
Insomma, mi è simpatica.
Oltretutto magari non ci sta affatto guardando male: forse ha solo un problema di resting bitch face. E' una mucca introversa in un mondo di mucche socievoli: non dev'essere facile, lo so.
"Secondo me è il campanaccio" chiosa Tabby Cat.
"Nel senso che le dà fastidio perché è pesante?"
"A parte quello... come ti muovi fa rumore: dlen-dlen-dlen... c'è da diventare scemi dopo un po'! Non le darà fastidio?"
"Sì, poi lei è introversa, i rumori la affaticano di più"
"In che senso è introversa?"
"No, niente, lascia stare"
Chissà se hanno inventato anche le cuffie insonorizzate per le mucche.
Quando lo faranno gliele porto: magari mi sorride...
Vai al mare se vuoi imparare qualcosa sulle tue profondità, vai in montagna se vuoi imparare qualcosa sulla tua forza - diceva qualcuno, ...
Val di Mello: mucche brutte, monti disgraziati e nobili bidet
Val di Mello: mucche brutte, monti disgraziati e nobili bidet
Val di Mello: mucche brutte, monti disgraziati e nobili bidet
Vai al mare se vuoi imparare qualcosa sulle tue profondità, vai in montagna se vuoi imparare qualcosa sulla tua forza - diceva qualcuno, ma non ricordo bene chi.
Forse ero io, in realtà.
Qualcun altro ancora diceva che quando una persona a cui vuoi bene ti consiglia un libro, la vai subito a cercare in mezzo alle pagine. Tabby Cat è da sempre una delle mie pusher di letture più affidabili: mi ha fatto scoprire mondi vittoriani fatti di ombre e segreti, ribellioni che significano semplicemente ricercare se stessi, anti-eroine oppresse da regole non scritte, corsetti stringenti e stereotipi ancor più soffocanti. Sono sempre state letture che mi hanno aiutata a trovare risposte ma anche domande, e in cui mi sono sempre imbattuta in qualcosa che sono stata, o che avrei potuto essere.
E - ok, come al solito mi sto perdendo in qualche volo pindarico, ma qui il collegamento è semplicemente un'altra celebre citazione, quella che dice che leggere e viaggiare sono similitudini reciproche, che il mondo è un libro e che dove nasciamo è una pagina, per sfogliare tutte le altre dobbiamo prendere aerei, o treni, o i nostri stessi piedi e muoverci fra le righe del mondo per scrivere nuove storie.
Questa me la ricordo chi l'aveva detta - era Sant'Agostino.
Quel che volevo direi io, invece, era che Tabby Cat da ormai qualche anno mi parla con entusiasmo della Val di Mello, riserva naturale della Valtellina appena sopra Morbegno - ed ero molto curiosa di vederla con i miei occhi.
Era un mattino di fine settembre, qui le temperature erano ancora calde, là già quasi frizzanti. Lasciamo la macchina nel parcheggio a San Martino, infiliamo le scarpe da trekking e saliamo in mezzo alle case per raggiungere l'imbocco della riserva.
Il sentiero è inizialmente quasi piano, scivola con poche curve e molti sassi fra prati scoscesi che sono anche pascoli: le mucche, l'ho imparato da tutte le volte che in Cornovaglia ci hanno bloccato un autobus per venire a guardare dentro i finestrini, sono animali curiosi - ce n'è una nera che, appena ci vede sbucare dal fondo della valle, ci trotta decisa incontro. Poi forse realizza che siamo meno interessanti di quanto pensasse, oppure viene presa da una ritrosia dell'ultimo minuto e ci scarta con nonchalanche, facendo finta di nulla e dirigendosi verso una sua compare dal manto fulvo che stava facendo colazione indifferente con un ciuffo d'erba qualche metro più in su.
Sullo sfondo ci sono le montagne, che, con la luce tenue delle prime ore del mattino, hanno un profilo azzurrino - quasi si confondono con il cielo, e sembrano vicinissime ma al tempo stesso molto lontane.
Però ci camminiamo incontro.
I laghi, in montagna, arrivano quasi sempre come una sorpresa: te li ritrovi di fronte più o meno all'improvviso, e sono simili a specchi - freddi, cristallini, che servono al cielo ed alle montagne per vedersi, e a noi per riuscire a cogliere un pezzo d'infinito, racchiuso nel riflesso confinato fra le sue sponde.
Sono fatti di silenzio e di altre cose trasparenti che però, in realtà, ne contengono molte altre - cose che si vedono anche da fuori, ma che, riflesse lì dentro, sembrano diverse: sfumate ma al tempo stesso più intense, come se, guardandosi nello specchio del lago, riuscissero a far trasparire la loro anima.
Ci inginocchiamo, bocconi, non per venerarlo, ma per scattargli qualche foto dal basso, che riveli il riflesso dello specchio, e cosa nasconde al di sotto della sua superficie - sassi, foglie e qualche altro segreto. Che, ok, forse in effetti è il nostro modo per venerarlo.
Questo lago, ci han detto, fino ad un paio di anni fa non esisteva.
E' stato creato da una frana.
Che, a mio parere, è una metafora meravigliosa di come eventi apparentemente disastrosi possano a volte portare a conseguenze bellissime.
Altre volte invece gli eventi disastrosi portano solo conseguenze disastrose - ma va beh, adesso volevo essere ottimista.
"Ecco, quello è il Monte Disgrazia".
Ah ecco, avevo appena parlato di ottimismo.
Però è così bello - nobile, nella sua imponenza. Non sembra una disgrazia a vederlo così, ma si sa che io non sono molto brava a valutare queste cose e che spesso un aspetto nobile mi sa trarre in inganno.
"Ma noi non ci andiamo fin lassù, vero?"
"Ah, ma comunque in realtà Disgrazia non è il suo vero nome"
"Ok - mi fa piacere che non sia stato iscritto all'anagrafe così, ma il fatto che se lo sia guadagnato come soprannome non mi tranquillizza particolarmente"
No, no, no - a quanto pare il povero monte in realtà si chiama "Disghiaccia" in dialetto valtellinese, l'hanno solo italianizzato male.
Anche perché non mi è chiarissimo cosa voglia dire: che si sghiaccia meglio e prima di tutti gli altri? Che non si sghiaccia mai? Che ghiaccia il doppio?
Ci rimugino, ma non troppo - perché nel frattempo arriviamo ad un altro specchio d'acqua ricco di meraviglie. O meglio, ricco di angolazioni meravigliose da cui fotografarlo.
Già c'era da immaginarlo - che il tempo medio di percorrenza del sentiero era di 2 ore e mezza, ma, con me che scatto foto ad ogni angolo, arriveremo tranquillamente a quattro.
Questo è un laghetto minuscolo e verde smeraldo - non riflette cielo e montagne, ma lascia intravedere, con la disarmante innocenza di un libro aperto, tutte le rocce e il terriccio torbido del suo fondale.
Si chiama Bidet della Contessa, e, ora, provare ad immaginare quale possa essere la storia dietro a questo nome e a fantasticare su chi sia la nobildonna in questione, che amava immergere le proprie parti più intime nelle acque gelide e verdoline di questa pozza, mi distoglierà definitivamente dalle elucubrazione sul Monte Disgrazia Che Disghiaccia.
Me la immagino un po' ribelle questa contessa, allergica alle crinoline e agli obblighi dell'etichetta, che, appena poteva, indossava di nascosto vestiti da uomo e partiva per scalar montagne rubando cavalli dalle scuderie, per la disperazione del conte suo padre che disperava la prospettiva di farla accasare con un buon partito, facendole anche mettere la testa a posto.
O, magari, non era affatto una nobildonna, ma una comune paesana, che, però, per la sua riservatezza e per i suoi modi di fare garbati ma al tempo stesso troppo distaccati, si era guadagnata questo soprannome un po' beffardo perché tutti pensavano che si desse un sacco di arie e si credesse superiore agli altri - quando in realtà amava semplicemente la solitudine e il contatto con la natura mozzafiato della sua valle.
Non lo sapremo mai, suppongo - quindi probabilmente posso scegliere io la versione che più aggradi.
E anche voi, ovviamente, potete fare lo stesso.
Anzi, vi lascio piena facoltà di scelta perché, nel frattempo, siamo finite dentro un bosco incantato e quindi le fucine della mia immaginazione sono già alle prese con altre fantasticherie: gli alberi sono altissimi, corrono verso il cielo in un tripudio di verde e sembrano binari paralleli che, in lontananza, verso l'orizzonte, sembrano toccarsi. I tronchi caduti e i massi sono ricoperti di muschio sgargiante, soffice, quasi di velluto. Qua e là, dentro nicchie di alberi cavi o di pietre accatastate, si trovano tesori: funghi rossi, pigne, rami e foglie caduti.
Dietro, in lontananza, ruggisce (o, forse, canta) un torrente a tratti impetuoso, a tratti trasparente, sfumato di verde ed azzurro, da cui emerge qualche formazione rocciosa dai riflessi rosati - come se volesse concorrere anch'essa all'incanto.
Un'altra delle tantissime cose che ho letto e di cui non mi ricordo l'autore diceva che, se si scuote un bosco, si faran cadere un sacco di gnomi, fate e tesori - secondo me ci si può trovare anche qualche strega, amante della solitudine e alla ricerca di una forma di bellezza non convenzionale, quella che è fatta non soltanto di apparenza ma anche di sostanza, coerente fra dentro e fuori, fra il silenzio e l'armonia serena e vibrante che si respira camminando in mezzo a tutta questa meraviglia.
Già - solo che le streghe non le faresti cadere semplicemente scuotendo un bosco: loro sanno aggrapparsi con molta forza alle cose che gli appartengono.
Silenzio?
Beh, in realtà si fa per dire. Nel giro di pochi minuti il nostro panorama idilliaco si è improvvisamente popolato di un numero incredibilmente alto (e probabilmente sconfortante) di altri escursionisti: salgono su a gruppetti di quattro o cinque, a volte anche solo in due, in alcuni casi anche con bambini o cani. Parlano fra loro ma ogni tanto si chiamano anche gli uni con gli altri, come se si conoscessero.
"Ehi, voi siete della Produzione?"
"Come, scusa?"
Insomma, viene fuori che i sentieri dei nostri boschi magici e le sponde dei nostri laghetti cristallini sono stati invasi da una gita aziendale.
Una. Gita. Aziendale.
Ma perché - pensiamo io e Tabby mentre addentiamo pane e bresaola sedute su una grossa roccia piatta con gli scarponi da trekking slacciati, circondate da questo esercito di dipendenti di una non meglio precisata azienda valtellinese, tutti con gentili consorti, figli, cani, suocere e pesci rossi al seguito, che corrono, saltano, mangiano, urlano, si inseguono, criticano, pontificano, spettegolano, discutono intorno a noi.
Saranno un centinaio.
O forse qualche migliaio, non saprei.
Sono le quattro del pomeriggio, e decidiamo di arrenderci alla superiorità del Team Building - avviandoci, stanche ma soddisfatte, lungo la via del ritorno, dando un'occhiata mesta al Bidet trasformato ormai in una piscina comunale a Ferragosto.
Una mucca dall'aria truce ci si avvicina da dietro una staccionata:
"Che brutta 'sta mucca"
"Ma dai, poverina..."
"No, scusa, è oggettivamente brutta: guarda che aria ingrugnita che ha"
"Per forza ha l'aria ingrugnita, le hai appena detto che è brutta: mica può esserne contenta"
"Va bene, scusami mucca: sono sicura che sei molto bella dentro"
Però forse le scuse non le accetta, perché continua a guardarci con aria scocciata: anziché avere l'atteggiamento festoso e curioso che hanno di solito le altre mucche quando un umano si appropinqua, lei pare oggettivamente un po' irritata, come se stesse meditando di spingerci via dal suo territorio a testate.
Insomma, mi è simpatica.
Oltretutto magari non ci sta affatto guardando male: forse ha solo un problema di resting bitch face. E' una mucca introversa in un mondo di mucche socievoli: non dev'essere facile, lo so.
"Secondo me è il campanaccio" chiosa Tabby Cat.
"Nel senso che le dà fastidio perché è pesante?"
"A parte quello... come ti muovi fa rumore: dlen-dlen-dlen... c'è da diventare scemi dopo un po'! Non le darà fastidio?"
"Sì, poi lei è introversa, i rumori la affaticano di più"
"In che senso è introversa?"
"No, niente, lascia stare"
Chissà se hanno inventato anche le cuffie insonorizzate per le mucche.
Quando lo faranno gliele porto: magari mi sorride...
About author: Serena Chiarle
Analitica come stile di vita, e data scientist di professione. Introversa e fiera di esserlo, ho come arma preferita il sarcasmo. Viaggio spesso con il pensiero e ogni tanto anche dal vivo. Leggo per legittima difesa e scrivo con premeditazione di reato - oppure per evitare di commetterne. Bevo vino rosso, caffé senza zucchero, parlo con i gatti e fotografo tramonti. Amo le contraddizioni perché è così che funziona.
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Secondo me era ingrugnita per la gita aziendale e sapendo che non eravate parte del gruppo cercava solo solidarietà... "Beh? Avete visto? Ma si può venir quassù per far tutto quel fracasso? Mi pare d'essere stata teletrasportata in una fattoria di pianura il giorno d'una gita didattica per famiglie! Uffa, uffa e uffa! Se si avvicinano per fare autoscatti con me li prendo a testate! Non ho ragione?" 😂
RispondiEliminaE' probabile :-D
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