Era un weekend di fine giugno, e c'era un'afa insopprimibile.
Forse non necessariamente insopportabile - solo così: non si riusciva a sopprimere, non andava via. Te la ritrovavi appiccicata alla pelle, una coperta umida e soffocante, anche quando riuscivi a trovare riparo al chiuso, con l'aria condizionata. Era un continuo bisogno d'acqua, stremante - una sensazione di essere in procinto di evaporare, come se il proprio corpo non bastasse più, come se fosse quasi una prigione in cui si dibatteva il desiderio di andare lontano, con un frullio d'ali persistente e vibrante, come quelle di un colibrì.
Era un weekend di fine giugno in cui avevo voglia di scappare.
Mi capita sempre, a fine giugno.
Solo che quest'anno non potevo.
E abbiamo deciso questo: ne parlavamo da tempo, ma alla fine è stata una scelta improvvisa - avevamo questi biglietti delle ferrovie francesi, e dove vuoi andare, da Torino, in cui si possa fare un giro di 48 ore - sabato e domenica, un weekend, solo una boccata d'aria, solo una parentesi tonda mentre il resto, il lavoro, lo stress, i problemi, lo stress e ancora lo stress rimangono sempre parentesi quadre e graffe?
Chambery - la prima fermata in territorio d'Oltralpe del TGV che parte da Torino.
Io ero già oltre.
Avevo avuto una settimana in cui ero andata oltre al limite - delle parentesi quadre e graffe di cui sopra, intendo. E, quando vai oltre al limite, ad un certo punto, ti plana addosso una sensazione strana: di pace, quasi, di consapevolezza, rassegnata ma forte. Qualcosa come essere nell'occhio del ciclone, credo. Qualcosa come quando ti alzi, ti giri e te ne vai - solo che funziona bene nei film, nella vita reale è più complicato da fare.
Ma non voglio parlare di questo adesso.
Voglio parlare di Chambery.
Chambery è una sorta di fratellanza psicologica per noi che viviamo in Valsusa, territorio che è stato sabaudo per un millennio intero, in questa nicchia sotto le Alpi - e sarebbero un confine naturale, in teoria, ma ciò che vorrebbe la natura non è sempre qualcosa di cui l'uomo riesca ad accontentarsi, e, prima dei treni, ci aveva provato Annibale con i suoi elefanti a superarlo; poi i Savoia avevano voluto tutto, di qua e di là, e quindi Chambery e Torino sono quasi sorelle. Forse hanno perso ormai i contatti, forse già prima si sentivano estranee, magari erano solo una famiglia allargata, che si era ritrovata ad essere famiglia senza nemmeno saper bene perché.
Però se le Alpi fossero uno specchio magico, o un armadio che si spalanca verso un'altra dimensione, quel che Torino troverebbe, affacciandosi, sarebbe Chambery, sarebbe il suo alter ego: entrambe capitali, a loro tempo e modo, entrambe portatrici del mistero della Sindone.
Ma le Alpi non sono un passaggio per mondi diversi, mondi migliori o forse no, forse solo paralleli, in cui quello che sbagli continuerai sempre a sbagliarlo, sotto forme diverse, e quello che ami continuerai sempre a ritrovarlo, ma ad averlo in modi che di qua non riusciresti ad immaginare. Non lo sono. Sono guardiani di roccia che emergono direttamente dalle viscere della Terra, sono confini invalicabili - a meno che tu abbia un esercito di elefanti.
O forse no.
Forse oggi ci basterà un treno e riusciremo a passare in quest'altra dimensione.
Anche a Chambery c'è afa.
L'asfalto diventa soffice, l'aria è un abbraccio caldo ed invadente.
Le Alpi sono sullo sfondo, vigili ma distaccate - e, se la neve che ancora imbianca le loro punte può sembrare un miraggio di frescura, appare lontano ed impossibile come un amore non corrisposto. Non sono le stesse che vediamo noi, ma gli somigliano, lo stesso profilo imperioso di roccia: non le vediamo perché sono nascoste dietro alle nostre, ma qui siamo nel viceversa.
E, in questo viceversa, Chambery di Torino ha i portici, ha le vie lunghe ed ordinate, i cortili che nascondono mondi segreti, gli spazi verdi urbani che sono una parentesi in mezzo alla città che corre - ma è tutto declinato in un'accezione diversa.
Chambery è medievale - ha quel sapore di tempo rimasto fermo, di vicoli sinuosi di pietra, di case a graticcio e passaggi segreti che a Torino, con la sua eleganza sobria e razionale, un po' manca.
Hanno una dimensione intima, gli spazi del suo centro storico, come un borgo antico inserito all'interno del cuore di una città.
E' quel tipo di cuore in cui è bello vagare a caso, perdersi un po', seguendo l'istinto, ricercando dettagli, spiando nelle vetrine delle botteghe o attraverso i cancelli di ferro battuto dei cortili, infilandosi nei vicoli laterali come Alice quando insegue il suo coniglio.
E' quel tipo di cuore che si gira in fretta, ma in cui, ogni volta che ritorni sui tuoi passi, ti imbatti in nuovi particolari che prima ti erano sfuggiti.
Place Saint-Leger è il cuore del cuore; ma, al contrario di ciò che suggerisce la nomenclatura che le han dato, somiglia di più ad una via mediamente ampia, lunga - e pavimentata di granito rosa.
Come molti cuori, è fatta di tante cose - di un patchwork di stili, epoche, colori: le case in tinte pastello che si affacciano ai suoi lati e che sembrano osservare curiose il brulichio di gente e di parole che si muove ai loro piedi, sono tutte alte uguali ma indossano abiti diversi.
Hanno personalità diverse, anche. Forse età.
E' come un collage fatto da un bambino, di tante cose che gli sono piaciute.
Nascosta dietro, da qualche parte, c'è la cattedrale.
Questo è un parallelismo che Chambery ha con la sua gemella dall'altra parte dello specchio magico: anche il Duomo di Torino è raccolto in un angolo, dietro la piazza principale e non ostentato al suo centro come una torta nuziale - quasi a voler suggerire una dimensione intima, privata, come dovrebbe essere il rapporto con il sacro.
Del resto, il parallelismo non finisce qui: anche questo edificio ha fatto da tempio per la Sindone, fino a quando, nel 1400, è stata trasportata al di là dello specchio, in territorio torinese.
La cattedrale di Chambery ha una facciata sobria ma elegante, imponente ma al tempo stesso rassicurante: aveva un tesoro, che adesso si trova da un'altra parte - e al suo posto ha deciso di regalarsi un dipinto bizantino su avorio.
Quel che c'è attorno è un dedalo - che forse è fatto di segreti, o perlomeno di qualche storia: magari c'è dell'ombra, ma non è detto che sia qualcosa di oscuro - in questa afoso sabato di fine giugno, può anche essere un ristoro.
E c'è anche una certezza: che, per quanto tu possa vagare a caso in tutti i vicoli, alla fine, prima o poi, giungerai sempre al Castello.
Il Castello dei Duchi di Savoia - prima che passassero anche loro dall'altra parte dello specchio e diventassero conti, principi, re.
Ma, quando erano qui, in questa roccaforte possente e volitiva, che fuoriesce dalle fiabesche vie del centro quasi come una contraddizione, come un gigante infiltratosi in un esercito di elfi, il Ducato di Savoia era comunque uno stato sovrano, slegato del resto della Francia.
Avevano già il loro destino, la loro brillante carriera scritta nelle stelle - ma, per farlo, dovevano spostarsi altrove, valicare le Alpi come Annibale con i suoi elefanti e trovare un nuovo punto di partenza.
Che poi gli elefanti ci sono anche qui a Chambery.
La Fontana degli Elefanti troneggia appena fuori dal labirinto medievale del centro storico, in mezzo a due vie porticate che ricordano un po' la sua gemella italiana.
E sono automaticamente diventati la mascotte della città: si trovano ovunque, abbozzati in tondini di ottone incastonati nella pavimentazione stradale.
C'era questo tizio che si chiamava Benoit de Boigne e di mestiere faceva il generale. Era nato a Chambery ma un giorno aveva deciso di andarsene in India a fare fortuna - e la fece così bene che, una volta tornato a casa, decise di volersi far costruire un monumento maestoso.
La sua statua troneggia a 17 metri di altezza, ed è sostenuta da quattro elefanti, di cui si vedono solo la testa e le zampe anteriori.
Perché gli elefanti?
Wikipedia sostiene che siano un omaggio all'India, la terra che gli ha donato così tanta fortuna.
Probabile - però non mi convince del tutto.
Sarà che, da quando mi sto alambiccando su questo interrogativo, continuo ad avere in testa il ritornello della canzoncina "Ne ho viste tante da raccontar / ma mai gli elefanti volar..." e mi viene in mente che in tante storie gli elefanti diventano quasi una metafora di cose impossibili che poi si realizzano: come Dumbo che vola, o Annibale che attraversa le Alpi.
O i Savoia che conquistano tutta l'Italia, o questo signor De Boigne che va in India e diventa straricco.
Quindi penso che, in fin dei conti, a volte scappare sia un bene.
E, anche se non hai uno specchio magico o l'armadio di Narnia, ti può bastare un elefante.
0 comments: