Qui siamo a giugno del 2022, e forse si sta ricominciando a viaggiare.
Il mondo, fondamentalmente, non ne può più di rimanere chiuso, di sentirsi una mamma iperapprensiva che per salvaguardare la salute dei figli impedisce loro di crescere. Perché per crescere bisogna provare, e sbagliare, ogni tanto, altrimenti non si impara, altrimenti si resta fermi.
È il secondo aereo che prendo, in realtà, da dopo che il mondo si è bloccato.
Sono stata due anni senza – inusuale per me, che prima ci salivo su con nonchalance, in media una volta al mese.
Mi era mancato, sì – ma non mi sentivo privata di qualcosa: semplicemente, in quel momento, c’era altro. E non era nemmeno paura, era solo che si trattava di un’altra vita.
Ci si adatta in fretta, si mettono da parte in fretta le cose, anche quelle che si amano: questo mi ha insegnato il mondo che si è bloccato.
Questo e molto altro, in realtà – ma adesso siamo di nuovo qui, nel mio piccolo aeroporto grazioso, con il pavimento grigio e lucido, le vetrate infinite che danno sulle Alpi tinte di blu, il chiosco di birra artigianale, l’angolo del book crossing e la libreria che vende le fontanelle in miniatura con il toro sopra. Volare per me è sempre stato speciale, ma ogni volta riesce ad esserlo con una sfumatura diversa.
Avevo voglia di Sicilia, questo giro.
Le mie voglie di viaggio sono sempre istintive, e sbucano fuori improvvise, immotivate ma impellenti. E questa Sicilia me la stavo accarezzando da un po’, sognando maioliche, maestosità barocche color sabbia, saline al tramonto e casette colorate a ridosso di acque cristalline.
Avevo comprato un libro per girarla in treno: idea improvvida, forse – ma avevo studiato itinerari, incastri, combinazioni, punti da non perdere, cibi da assaporare.
Alla fine tutto si è poi ridotto ad un unico weekend lungo – è già giugno e comincia a fare caldo, il tempo a disposizione è poco, ma una fuga me la volevo concedere: un solo morso alla mia voglia, e magari mi basta – o magari chissà.
L’itinerario si è quindi scarnificato per essere fatto entrare a forza in poche giornate – e, sulla scelta della meta principale, grandi dubbi non li avevo avuti.
I dubbi pare averceli il nostro aereo, che, dopo averci imbarcati tutti puntuali, non decolla.
A quanto pare l’Etna è nervoso, sta oscurando una parte del cielo di Catania e quindi lo spazio aereo è ridotto: c’è una lunga coda e siamo in attesa del nostro slot.
Ora – la parola “slot” negli ultimi anni è diventata imperante nel gergo lavorativo da business man, nato in terra meneghina ed esportato ormai anche fino alle pendici della Bisalta, che ama intercalare al comune linguaggio del sì, qualche termine inglese, al fine di stupire, incantare e, un po’, distrarre l’interlocutore.
In questo caso, forse, l’anglicismo è giustificato, perché “blocco” non suonerebbe altrettanto bene come termine; però ogni volta che lo uso mi viene in mente più che altro “sloth”, con l’acca finale – ovvero bradipo.
E mi sa che qui ricadiamo più in questa casistica, perché il tempo passa e noi non decolliamo: siamo lì fermi in pista, chiusi dentro la nostra gabbia alata di metallo.
C’è chi si spazientisce, chi sbraita, chi invoca la Convenzione di Ginevra, chi chiede dell’acqua, che gli viene offerta alla modica cifra di due euro alla bottiglietta pagabili solo con carta di credito: io opto per il “prenderla con filosofia”, che tanto molto altro non si può fare, e scivolo via immergendomi nella lettura.
Di fianco a me è nato un team spontaneo di risoluzione delle parole crociate:
“Pesce con il corno, comincia per N”
“Nasello”.
Ok.
Direi che, nonostante il lavoro di squadra, hanno qualche difficoltà. Me ne torno al mio libro.
E finalmente si parte.
L’aeroporto di Catania è come quelle signore che si ostinano a voler ancora entrare nello stesso costume da bagno di un paio di decadi fa, nonostante ora ci siano almeno venti chili in più, oltre che altrettanti anni: ha troppo traffico per le sue dimensioni – o viceversa, dipende dai punti di vista.
Arraffo un arancino in una tavola calda da un ragazzo che non capisce quello che dico perché indosso la mascherina e che mi prende per straniera: glielo lascio pensare comunicando a gesti in risposta al suo mix di catanese stretto e inglese raffazzonato, poi, alla fine concludo salutandolo in italiano.
Non è Catania, però, la mia meta: l’arancino lo mangio su un autobus, che mi porta fino ad Ortigia.
Ortigia, il cuore antico e pulsante di Siracusa, non si trova al centro della città, ma è distaccato, si protende in mezzo al mare. E chi non ce l’ha – un cuore che si protende verso il mare, soprattutto quando è blu e verde e cristallino come questo.
Forse è per questo, per il suo cuore distaccato, che è anche un labirinto in cui ci si perde e ci si ritrova, che Leonardo Sciascia diceva che nessun’altra città come questa si nega, si dissimula, si fa segreta e visionaria.
È quasi una Kyoto siciliana, con la stessa aura sacra declinata in una profana prosaicità trascurata, in una spiritualità rigogliosa, in budelli antichi che nascondono tesori.
Il suo nome evoca atmosfere da Antica (Magna) Grecia, qualcosa di idilliaco e rigoglioso, di esoterico ed un po’ segreto, fuso fra mitologia e storia. Evoca anche qualche versione di latino del liceo, in effetti – ma pazienza.
Nella realtà è un dedalo di vicoli, di barocco, un misto di decadenza e dettagli curati, di gatti randagi, di ape calessini che sfrecciano, di turisti che vociano e che si incantano, di storia pagana e devozione cristiana, di pane cunzatu e granite. Ortigia è un’ode ai dettagli.
Ma Ortigia è soprattutto antica: la sua prima pietra fu posta dai Corinzi nel VII secolo a.C., ma crebbe e raggiunse il suo apice qualche centinaio di anni dopo, arrivando a rivaleggiare con Atene e Cartagine. Chi la dominò impose l’autarchia assoluta, ma furono tiranni illuminati e dediti al mecenatismo, che, oltre a fare la guerra, portarono sull’isola le migliori menti – come ad esempio un certo Archimede, che ricambiò la fiducia da parte dell’azienda con il suo giochetto degli specchi ustori, che mise fuori gioco con poco sforzo la flotta nemica. Nel dubbio, Dionisio I, che del suo mago dell’ottica si fidava, ma dei Cartaginesi no, decise comunque di trasformarla in una fortezza inespugnabile, sfruttando la morfologia sopraelevata dell’isola.
Qualcuno arrivò a definirla “la Piccola Atene” – Dionisio secondo me un po’ ci restò male perché avrebbe preferito che Atene diventasse “la Siracusa extra large”, ma in compenso Cicerone, che aveva ben più voce in capitolo che un influencer oggi, proclamò che era molto più bella, e quindi gnegnegne ateniesi. Non per nulla le fecero guerra anche loro.
Cicerone comunque non parlava a vanvera, e, qualche secolo dopo, Siracusa passò in mano romana – ma bisogna dire che, in generale, piaceva proprio a tutti: successivamente sono arrivati anche i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, e ognuno lasciò una traccia, anche se oggi ci rimane ben poco.
Purtroppo nel 1693 un terribile terremoto la rase quasi completamente al suolo, lasciando in piedi solo i monumenti dei Greci - perché le menti illuminate di Dionisio mica erano illuminate solo per finta. A quel punto, come dicono gli Stato Sociale, “è facile odiare il terremoto, il difficile è ricostruire” – ma Siracusa se la cavò egregiamente anche quella volta, rifacendosi il look con lo splendore barocco color miele che oggi troneggia nelle sue eleganti piazze.
Comunque, Ortigia in linea teorica sarebbe un’isola, ma oggi ha più le sembianze di una penisola: è collegata alla terraferma – ok, alla parte nuova di Siracusa, che tanto terraferma non è, essendo Sicilia; e, se proprio vogliamo, non è nemmeno tanto “nuova” dal momento che qui abbiamo un’area archeologica immensa, fatta di teatri e caverne spia, ma ne parliamo dopo.
Era giusto per dire che tutto è relativo, e credo che il suo fascino risieda proprio qua.
All’imbocco dell’isola, vicino alle rovine del Tempio di Apollo, ci sono i banchi del mercato, strabordanti di souvenir, ricci di mare aperti a mani nude da mangiare crudi, stoffe colorate, cannoli, profumi, richiami.
Il fatto che un mercato sorga con totale nonchalance vicino alle vestigia di un tempio antico, come due vicini di casa curiosamente assortiti, è qualcosa che possiamo considerare scontato solamente in Italia, dove abbiamo una dose talmente traboccante di arte e bellezza che la amalgamiamo nel quotidiano con una spontaneità quasi profana.
O, forse, al contrario, infinitamente sacra, chissà.
La Piazza del Duomo ti sorprende: è come un palcoscenico che si apre all’improvviso, ti trascina fuori dai vicoli e ti catapulta in mezzo alla sua maestosità di scrigno color miele fatto di palazzi ricercati e chiese dalla sacralità solenne.
Di giorno le pietre che pavimentano l’ampia piazza e che modellano i suoi edifici barocchi sono talmente chiare e splendenti da diventare quasi accecanti nella loro regalità: al tramonto la luce si fa più calda, si ammorbidisce, ti trascina con sé con una dolcezza quasi ipnotica, come un canto di sirena.
E la sirena ti lascia indugiare qualche minuto sullo splendore barocco del Duomo, che, con un upgrade abbastanza comune, sorge sopra le antiche vestigia di un tempio pagano: dove oggi c’è la statua della Madonna, un tempo c’era un simulacro in oro di Atena che faceva da faro ai naviganti.
Dopo il terremoto del 1693 la facciata ha preso in modo definitivo l’attuale rigogliosa forma barocca, tanto chiara e lustra da risultare quasi abbacinante.
Ma, una volta che ti ha preso per mano, la sirena non si accontenta di lasciarti lì, in contemplazione un po’ stupita dell’imponenza regale del suo edificio sacro dominante: ti trascina in un giro di danza che tocca l’intera piazza, ricordandoti che il contorno alla portata principale non è qualcosa di secondario – è un accompagnamento studiato e complementare, parte integrante di ciò che la rende un capolavoro. Il “contorno” della Piazza Duomo di Siracusa è costituito dalla relativamente sobria chiesa di Santa Lucia alla Badia, che al suo interno però custodisce un’opera di Caravaggio, e poi dall’eleganza elaborata di Palazzo Vermexio – che porta il nome di colui che l’ha scolpito, e anche la sua firma: un piccolo geco che fa capolino sull’angolo sinistro.
Il signor Vermexio era infatti soprannominato “lucertola” – chissà se per una qualche somiglianza fisica o se perché amava crogiolarsi al sole sulle spiagge dell’Arenella.
Con un’ultima rincorsa la sirena ti fa scivolare giù, sul lato sinistro del Duomo, verso il mare, fino alla fonte di Aretusa.
La fonte di Aretusa è incassata qualche metro più in giù rispetto al livello della strada, ed è un piccolo lago, creato da una sorgente naturale, abitata dagli unici papiri spontanei che crescono in Europa. Per gli amici è anche soprannominata “Fontana delle papere” – e questo per una sorta di qui-pro-quo, perché “papere” in siciliano si pronuncia “papiri”; però, effettivamente, forse per autoadempiere la profezia, o forse perché sì, è anche frequentata abitualmente da un certo numero di anatre.
La sorgente di Aretusa è alimentata dalla stessa falda freatica che è alla base del fiume Ciane, al lato opposto del porto – e qua gli Antichi Greci, che erano specializzati in questo genere di presunte romanticherie, decisero di scatenare la fantasia con un paio di leggende passionali che oggi troveremmo un po’ al limite dello stalking.
Anzi, togliamo pure il “limite” – era stalking punto e basta.
Dunque, la povera Aretusa era una ninfa che faceva parte dell’entourage di Artemide, la quale, pur essendo dea della caccia e cavandosela discretamente bene con gli oggetti contundenti, per salvare la sua collaboratrice dalle attenzioni non gradite e molto insistenti di un certo Alfeo, ebbe la brillante idea di avvolgerla nella nebbia e trasformarla in una sorgente – cosa che non mi pare molto giusta, ovviamente non solo perché siamo a Siracusa e non a Milano, quindi la nebbia non vedo cosa c’entri, ma soprattutto perché lei era la vittima, per cui mi sfugge il motivo per cui debba essere trasformata in una pozza d’acqua.
Forse sotto sotto le stava un po’ antipatica e si è approfittata della situazione per levarsela dai piedi con eleganza facendo persino la figura dell’eroina; o forse anche fra le divinità le cose non hanno mai girato tanto per il verso giusto, e questo è il corrispettivo olimpico del “Portava la minigonna”.
Ma non è finita qua, perché il fastidioso Alfeo, che evidentemente non era mai stato educato a capire che anche i “no” fanno parte della vita e vanno accettati nel rispetto della scelta di chi li pronuncia, si rivolge in appello agli dei per rimediare al torto subito – ed evidentemente lo fa con la parte patriarcale del pantheon, per cui ottiene di essere trasformato in fiume anche lui per ricongiungersi all’oggetto del suo desiderio.
Un masochismo autodistruttivo quasi alla Romeo, insomma, oppure è involontariamente incappato in qualche divinità dal senso di giustizia vagamente passive-aggressive.
Sta di fatto che così la povera Aretusa ci rimette due volte, perché nemmeno in forma liquida riesce a liberarsi del corteggiatore indesiderato.
Tanto più che poi ci si è messo anche il comune di Siracusa a rincarare la dose, battezzando proprio “Alfeo” il tratto di lungomare che comincia dalla fonte.
Esiste tuttavia un’altra versione della storia che dice che in realtà Alfeo fosse un fiume che scorreva felice e gorgogliante in Grecia, finché un giorno non si innamorò di Aretusa (ebbene sì, anche i fiumi hanno un cuore) e chiese a qualche divinità non meglio precisata, o forse alla strega del mare della Sirenetta, di trasformarlo in ragazzo per poterla avvicinare.
Quindi sarebbe un po’ andata al contrario, e la trasformazione di Aretusa in qualcosa di acquatico sarebbe stata una scelta volontaria fatta per amore – un po’ come Fiona decide di diventare definitivamente orco e smettere di essere principessa per stare con Shrek.
Sarebbe una bella storia, quindi, però non so se mi convince fino in fondo; per cui rimango col beneficio del dubbio e guardo con occhio torvo il lungomare Alfeo, sperando che le papere e i papiri facciano fronte comune per aiutare Aretusa a tenerlo un po’ alla larga.
E Ciane invece che c’entra?
Era anche lei una ninfa, però alle dipendenze di Persefone, e non fu vittima di molestie, ma cercò di difendere la sua padrona da quelle di cui fu vittima lei da parte di Ade, il dio degli Inferi, che la voleva come sua sposa per forza – e, a parte tutto il resto, Ade non abitava nemmeno in un gran bel posto. Ciane si aggrappò al carro del dio che stava trascinando via Persefone per fermarlo, ma lui, senza battere ciglio, la trasformò in un fiume – che evidentemente era uno skill che insegnavano al primo anno della scuola per divinità greche.
Il suo amato, Anapo, disperato per averla persa così, fece domanda al Consiglio dell’Olimpo per essere trasformato in fiume pure lui: evidentemente era un incantesimo molto facile da fare, ma molto difficile da disfare, mi viene da pensare. O forse tutti i concetti motivazionali del non annullarsi per amore e rimanere fedeli a se stessi sono una filosofia di vita moderna, e all’epoca invece il martirio e il “se diventi fiume lo divento anch’io” erano considerati eroici e forse l’unica soluzione eticamente accettabile: qualcun altro bruciava vive le vedove sulle pire funebri dei mariti, per cui suppongo che trasformarsi in un corso d’acqua sia tutto sommato meglio.
Il tramonto comincia a compiere la sua magia sul lungomare di Ortigia, colorando il cielo di viola, il mare di indaco e lasciando ovunque un’aura dorata, resa più preziosa dalle luci delle case bianche che si adagiano sul contorno dell’isola.
Il tramonto lo accompagno con una granita al pistacchio, cremosa, sontuosa, come solo qui sanno fare.
Il concetto siciliano di granita è qualcosa che non ha eguali in tutto il resto d’Italia: o meglio – quella siciliana è la vera granita, tutto il resto è solo ghiaccio tritato.
Per la cena invece ci si rituffa nei vicoli, girando a caso, seguendo le lucine appese come se fossero stelle, cercando angoli nascosti, decorati con oggetti vintage come se fossero la soffitta della nonna, quella in cui da bambina ti rifugiavi per crearti un tuo mondo con la fantasia, più interessante di quello che c’era intorno.
C’è una piccola piazza circondata da edifici color miele, con tavoli e sedie bianchi, oleandri e bouganvillee a fare compagnia.
Qui nella diatriba fra arancine e arancini vince la versione catanese per vicinanza geografica, e infatti hanno la forma allungata e portano la desinenza maschile.
La superficie croccante e sapida dell’impanatura fritta è seguita dalla consistenza cremosa e ricca del riso, per poi giungere al suo cuore saporito e forte, fatto di ragù, piselli e provolone filante.
Segue la pasta con le sarde: finocchietto, pangrattato, pinoli, uvetta, pomodorini – tutta l’essenza della Sicilia in un piatto.
La notte scende, e domani ci aspetta l’altra parte di Siracusa che non si trova su Ortigia.
0 comments: