novembre 26, 2018
Ho sempre avuto questo vizio, di rimanere seduta in disparte ad osservare.
E ho sempre avuto anche un altro vizio, che va di pari passo con questo, forse - la mania dei dettagli.
Credo sia perché sono perennemente in cerca di qualcosa, ovunque mi trovi: qualcosa che mi appartenga, almeno un po'.
E queste cose che mi appartengono, che trovo in giro, sono la mia collezione mentale preferita: le tengo con me, come ricordi chiusi in una qualche scatola di latta speciale, e li sfoglio, di tanto in tanto - perché così, ogni volta che mi sento sola, e forse anche un po' sbagliata, me ne ricordo, e realizzo di non esserlo.
L'autunno, con ogni probabilità, è una di queste cose - e, a Boston, è all'apice della sua magnificenza.
Se esistesse un concorso di bellezza per autunni, Boston lo vincerebbe.
Si può definire magnifica la malinconia?
Per me lo è.
E' magnifica la sua intensità.
Magnifiche le sue tante sfaccettature - spesso contraddittorie, e, per questo motivo, ancor più magnifiche.
Magnifica perché ha a che fare con le cose che si sono perse - ma che, del resto, se si sono perse è solo perché si sono anche avute.
L'autunno è malinconia, e la malinconia non è mai una cosa sola.
E' triste ed è felice, è amara ma anche dolce.
L'autunno è solitudine - e anche la solitudine è così: è bella ed aspra, sa di libertà ma anche di desolazione - la cerchi eppure ti pesa, tutto in una volta sola.
Essere soli in viaggio, dall'altra parte dell'oceano, lo mette sotto una lente d'ingrandimento.
Essere soli e sentirsi soli sono due cose diverse, che non sempre coincidono.
L'unica solitudine che fa male capita quando vorresti essere in compagnia di qualcuno che non vuole essere con te - tutto il resto non è mai una cosa sola.
Forse non è per tutti.
Forse anche questo è una specie di talento: bisogna esserci portati, e magari allenarlo un po', imparare a guardarsi dentro e non aver paura.
Qualcuno dice che sia questione di coraggio, ma non saprei: se ci nasci, così, non è coraggio - è solo la cosa più spontanea e facile: essere quello che sei.
I miei pomeriggi a Boston erano solitari, un anno fa, ed era autunno.
Mi ricordo la pioggia, le pozzanghere con le foglie in Copley Square. Le impalcature davanti alla chiesa, con sopra gli angeli delle vetrate con in testa un elmetto giallo e la scritta "God at work". Il pumpkin spice latte di Starbucks bevuto a metà e poi buttato via.
Stucchevole.
Non riesco a mangiare dolci in America - forse sarebbe la mia benedizione.
O la mia pena.
Mi ricordo Barnes & Nobles aperto fino a tardi e le serate passate a spulciare gli scaffali.
E le conferenze di data science al MIT, da cui tornavo a piedi attraversando il ponte sul fiume Charles - solo per fermarmi un attimo a guardare il mosaico di luci dello skyline, disegnato sullo sfondo nero dell'acqua, e su quello della notte, che diventano quasi la stessa cosa.
Ho camminato tanto, mi piace conoscere le città in questo modo.
Boston è una delle poche città americane che si riescono a conoscere girando solo a piedi.
E' tranquilla e raccolta, sembra invitarti a far proprio questo.
Ho vagato, senza smania, ma in cerca - di qualcosa che potessi trovar bello, di qualcosa che potessi sentir mio.
C'è il momento per vagare e il momento per fermarsi, e guardare le cose raccolte per strada, custodite nella scatola di latta: rigirarsele fra le dita, ricordare e dar loro valore - anche se questo momento arriva un anno dopo.
I ricordi non sono come i fiori: quando si essicano, col tempo, la loro essenza non va via - è, anzi, l'unica cosa che rimane.
Ed è quindi il tempo il metodo migliore per attribuir loro il giusto valore.
Quando è arrivato il sole, dopo una settimana di pioggia, mi dispiaceva andare via.
Ma non per il sole o per la pioggia.
Per Boston.
Ho deciso che volevo vedere il tramonto - perché il tramonto e l'autunno si abbinano bene insieme: sono entrambe cose che finiscono, e che, finendo, ci ricordano che sono state belle, che ci dispiace lasciarle andare.
Sono uscita di corsa, lasciandomi alle spalle i grattacieli e camminando in mezzo alle case vittoriane di mattoni arancio.
Anche i marciapiedi erano arancio. E le foglie degli alberi.
E le zucche di Halloween che stava per arrivare appoggiate davanti alle porte.
La luce del giorno che stava per morire intensificava questa tinta aranciata, la rendeva più cupa, più sfumata.
Boston è una città fatta d'autunno - come se lei e l'autunno fossero stati creati in un'unica pennellata, come se fossero sfumature diverse di uno stesso colore.
I lampioni ed i mattoni rossi mi hanno guidata fino al fiume Charles, attraverso il parco cittadino che lo costeggia per un lungo tratto.
Qua le foglie dorate sono diventate scure, il sole ha cominciato a scivolare lentamente dietro lo skyline dei grattacieli, illuminandoli di bagliori dorati - quasi fuochi d'artificio sui loro vetri infiniti, quasi un nuovo abito da indossare per qualcosa di speciale, una nuova espressione sul viso, i lineamenti raddolciti, acque profonde nello sguardo, parole superflue.
Solo gli occhi possono capire tutto questo, solo la luce del tramonto può parlare.
Il sole moriva, e io pensavo - che, se tutte le cose quando finiscono fossero belle così, forse sarebbe più facile lasciarle andare.
Forse sarebbe più facile accettare il momento di lasciarle andare.
Riconoscerlo, anche.
Il sole moriva sul Charles, facendolo diventare arancio, ma anche un po' turchese, e violaceo, e molte altre cose.
Tutto ciò che non era acqua, o cielo - gli alberi, i giunchi, le panchine, le persone, gli uccelli, le biciclette - stava diventando nero.
Una silhouette scura fatta solo di contorni, fatta solo per stagliarsi contro le sfumature variegate del tramonto - come in un teatro d'ombre, come se fosse lo sfondo ad essere l'unico protagonista, e il resto, solo marionette che lui manovra.
O come se, in realtà, prima fosse racchiuso dentro di loro, e poi avessero imparato a lasciarlo andare.
Il sole moriva, e questo io pensavo - che dovremmo riempirci tutti di tramonto più spesso, e d'autunno, anche: riempirci quasi fino a scoppiare, senza averne paura.
Lasciare che il dolore canti, che la malinconia ci assalga.
Non smettere mai di ridere, ma trovare anche il coraggio di piangere.
Di sentirsi sbagliati. O semplicemente diversi.
Tentare di raddrizzarsi, ma anche ammettere che a volte può andar bene rimanere un po' storti.
Ce n'è bisogno, ogni tanto.
E pensavo che non sempre le cose hanno un senso, non sempre devono per forza averlo.
Che possono essere belle, o tristi, o magari entrambe le cose.
Che possono anche essere insensate o assurde, ma non per questo cessare di essere belle, a modo loro.
E, a modo loro, possono anche essere un dono.
I doni spesso sono scomodi, sono impegnativi.
Sono come i "regali utili" che ti fanno a Natale quando passi ufficialmente nello status di adulto.
La vita te li fa spesso, ma capisci che sono doni solo molto tempo dopo.
Prima sembrano altro. Sfighe, dolori, rotture. Rovi ed ortiche.
Possono restare tali o possono diventare rose.
Dipende.
Anche da come li coltivi.
Il sole moriva, e io ad un certo punto ho smesso di pensare.
E ho capito, ho sentito, che, anche se ero sola, in realtà era un po' come se non lo fossi stata.
Perché c'era il tramonto, c'era l'autunno, e, se le anime fossero fatte di ingredienti, la mia sicuramente questi due ce li avrà.
Cose fatte di malinconia ma anche di bellezza, doni difficili ma ricchi.
E, alla fine, non è questione di coraggio - solo di essere ciò che si è.
Ho sempre avuto questo vizio, di rimanere seduta in disparte ad osservare. E ho sempre avuto anche un altro vizio, che va di pari passo c...
I tramonti di Boston (un anno fa)
Ho sempre avuto questo vizio, di rimanere seduta in disparte ad osservare.
E ho sempre avuto anche un altro vizio, che va di pari passo con questo, forse - la mania dei dettagli.
Credo sia perché sono perennemente in cerca di qualcosa, ovunque mi trovi: qualcosa che mi appartenga, almeno un po'.
E queste cose che mi appartengono, che trovo in giro, sono la mia collezione mentale preferita: le tengo con me, come ricordi chiusi in una qualche scatola di latta speciale, e li sfoglio, di tanto in tanto - perché così, ogni volta che mi sento sola, e forse anche un po' sbagliata, me ne ricordo, e realizzo di non esserlo.
L'autunno, con ogni probabilità, è una di queste cose - e, a Boston, è all'apice della sua magnificenza.
Se esistesse un concorso di bellezza per autunni, Boston lo vincerebbe.
Si può definire magnifica la malinconia?
Per me lo è.
E' magnifica la sua intensità.
Magnifiche le sue tante sfaccettature - spesso contraddittorie, e, per questo motivo, ancor più magnifiche.
Magnifica perché ha a che fare con le cose che si sono perse - ma che, del resto, se si sono perse è solo perché si sono anche avute.
L'autunno è malinconia, e la malinconia non è mai una cosa sola.
E' triste ed è felice, è amara ma anche dolce.
L'autunno è solitudine - e anche la solitudine è così: è bella ed aspra, sa di libertà ma anche di desolazione - la cerchi eppure ti pesa, tutto in una volta sola.
Essere soli in viaggio, dall'altra parte dell'oceano, lo mette sotto una lente d'ingrandimento.
Essere soli e sentirsi soli sono due cose diverse, che non sempre coincidono.
L'unica solitudine che fa male capita quando vorresti essere in compagnia di qualcuno che non vuole essere con te - tutto il resto non è mai una cosa sola.
Forse non è per tutti.
Forse anche questo è una specie di talento: bisogna esserci portati, e magari allenarlo un po', imparare a guardarsi dentro e non aver paura.
Qualcuno dice che sia questione di coraggio, ma non saprei: se ci nasci, così, non è coraggio - è solo la cosa più spontanea e facile: essere quello che sei.
I miei pomeriggi a Boston erano solitari, un anno fa, ed era autunno.
Mi ricordo la pioggia, le pozzanghere con le foglie in Copley Square. Le impalcature davanti alla chiesa, con sopra gli angeli delle vetrate con in testa un elmetto giallo e la scritta "God at work". Il pumpkin spice latte di Starbucks bevuto a metà e poi buttato via.
Stucchevole.
Non riesco a mangiare dolci in America - forse sarebbe la mia benedizione.
O la mia pena.
Mi ricordo Barnes & Nobles aperto fino a tardi e le serate passate a spulciare gli scaffali.
E le conferenze di data science al MIT, da cui tornavo a piedi attraversando il ponte sul fiume Charles - solo per fermarmi un attimo a guardare il mosaico di luci dello skyline, disegnato sullo sfondo nero dell'acqua, e su quello della notte, che diventano quasi la stessa cosa.
Ho camminato tanto, mi piace conoscere le città in questo modo.
Boston è una delle poche città americane che si riescono a conoscere girando solo a piedi.
E' tranquilla e raccolta, sembra invitarti a far proprio questo.
Ho vagato, senza smania, ma in cerca - di qualcosa che potessi trovar bello, di qualcosa che potessi sentir mio.
C'è il momento per vagare e il momento per fermarsi, e guardare le cose raccolte per strada, custodite nella scatola di latta: rigirarsele fra le dita, ricordare e dar loro valore - anche se questo momento arriva un anno dopo.
I ricordi non sono come i fiori: quando si essicano, col tempo, la loro essenza non va via - è, anzi, l'unica cosa che rimane.
Ed è quindi il tempo il metodo migliore per attribuir loro il giusto valore.
Quando è arrivato il sole, dopo una settimana di pioggia, mi dispiaceva andare via.
Ma non per il sole o per la pioggia.
Per Boston.
Ho deciso che volevo vedere il tramonto - perché il tramonto e l'autunno si abbinano bene insieme: sono entrambe cose che finiscono, e che, finendo, ci ricordano che sono state belle, che ci dispiace lasciarle andare.
Sono uscita di corsa, lasciandomi alle spalle i grattacieli e camminando in mezzo alle case vittoriane di mattoni arancio.
Anche i marciapiedi erano arancio. E le foglie degli alberi.
E le zucche di Halloween che stava per arrivare appoggiate davanti alle porte.
La luce del giorno che stava per morire intensificava questa tinta aranciata, la rendeva più cupa, più sfumata.
Boston è una città fatta d'autunno - come se lei e l'autunno fossero stati creati in un'unica pennellata, come se fossero sfumature diverse di uno stesso colore.
I lampioni ed i mattoni rossi mi hanno guidata fino al fiume Charles, attraverso il parco cittadino che lo costeggia per un lungo tratto.
Qua le foglie dorate sono diventate scure, il sole ha cominciato a scivolare lentamente dietro lo skyline dei grattacieli, illuminandoli di bagliori dorati - quasi fuochi d'artificio sui loro vetri infiniti, quasi un nuovo abito da indossare per qualcosa di speciale, una nuova espressione sul viso, i lineamenti raddolciti, acque profonde nello sguardo, parole superflue.
Solo gli occhi possono capire tutto questo, solo la luce del tramonto può parlare.
Il sole moriva, e io pensavo - che, se tutte le cose quando finiscono fossero belle così, forse sarebbe più facile lasciarle andare.
Forse sarebbe più facile accettare il momento di lasciarle andare.
Riconoscerlo, anche.
Il sole moriva sul Charles, facendolo diventare arancio, ma anche un po' turchese, e violaceo, e molte altre cose.
Tutto ciò che non era acqua, o cielo - gli alberi, i giunchi, le panchine, le persone, gli uccelli, le biciclette - stava diventando nero.
Una silhouette scura fatta solo di contorni, fatta solo per stagliarsi contro le sfumature variegate del tramonto - come in un teatro d'ombre, come se fosse lo sfondo ad essere l'unico protagonista, e il resto, solo marionette che lui manovra.
O come se, in realtà, prima fosse racchiuso dentro di loro, e poi avessero imparato a lasciarlo andare.
Il sole moriva, e questo io pensavo - che dovremmo riempirci tutti di tramonto più spesso, e d'autunno, anche: riempirci quasi fino a scoppiare, senza averne paura.
Lasciare che il dolore canti, che la malinconia ci assalga.
Non smettere mai di ridere, ma trovare anche il coraggio di piangere.
Di sentirsi sbagliati. O semplicemente diversi.
Tentare di raddrizzarsi, ma anche ammettere che a volte può andar bene rimanere un po' storti.
Ce n'è bisogno, ogni tanto.
E pensavo che non sempre le cose hanno un senso, non sempre devono per forza averlo.
Che possono essere belle, o tristi, o magari entrambe le cose.
Che possono anche essere insensate o assurde, ma non per questo cessare di essere belle, a modo loro.
E, a modo loro, possono anche essere un dono.
I doni spesso sono scomodi, sono impegnativi.
Sono come i "regali utili" che ti fanno a Natale quando passi ufficialmente nello status di adulto.
La vita te li fa spesso, ma capisci che sono doni solo molto tempo dopo.
Prima sembrano altro. Sfighe, dolori, rotture. Rovi ed ortiche.
Possono restare tali o possono diventare rose.
Dipende.
Anche da come li coltivi.
Il sole moriva, e io ad un certo punto ho smesso di pensare.
E ho capito, ho sentito, che, anche se ero sola, in realtà era un po' come se non lo fossi stata.
Perché c'era il tramonto, c'era l'autunno, e, se le anime fossero fatte di ingredienti, la mia sicuramente questi due ce li avrà.
Cose fatte di malinconia ma anche di bellezza, doni difficili ma ricchi.
E, alla fine, non è questione di coraggio - solo di essere ciò che si è.
About author: Serena Chiarle
Analitica come stile di vita, e data scientist di professione. Introversa e fiera di esserlo, ho come arma preferita il sarcasmo. Viaggio spesso con il pensiero e ogni tanto anche dal vivo. Leggo per legittima difesa e scrivo con premeditazione di reato - oppure per evitare di commetterne. Bevo vino rosso, caffé senza zucchero, parlo con i gatti e fotografo tramonti. Amo le contraddizioni perché è così che funziona.
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