Riflettevo sul mio silenzio, in questi giorni. Qui da queste parti, intendo. Un po' anche su altri fronti, ma non so quanto centrin...

Silenzio, parla Venezia Silenzio, parla Venezia

Silenzio, parla Venezia

Silenzio, parla Venezia


Riflettevo sul mio silenzio, in questi giorni.
Qui da queste parti, intendo.
Un po' anche su altri fronti, ma non so quanto centrino gli uni con gli altri.
Forse lo scoprirò appena avrò finito di scrivere - perché è questa la cosa bella di scrivere: che è un po' come fare un puzzle, o srotolare un gomitolo e farci un maglione da indossare contro il freddo - e quando hai finito ti fa vedere cose che prima non vedevi. Ti fa capire cose che ti passavano di fianco e non te ne accorgevi.
E poi c'è il bello di scrivere senza obiettivi, senza obblighi - che è la libertà.



Di scrivere quando ti pare, come ti pare - più o meno.
Difficile che qualcuno che passa lungo tempo a scrivere lo faccia senza obiettivi, in realtà; e, in effetti, nemmeno io ne sono esente: in altre sedi non lo faccio - ma qui sì. Questo, ho deciso da un po' di tempo che è uno dei posti in cui scrivo più o meno solo per me.
Perché chi scrive credo lo sappia - chi scrive deve scrivere, se sta troppo tempo senza scrivere è come rimanesse senza equilibrio, costipato.
Il problema di quando stai zitto per un po' è che poi non sai bene come ricominciare a parlare: gli incipit suonano sempre inappropriati - ma del resto è come tuffarsi in acqua se non si è abituati.
L'unico modo è buttarsi.
L'unico modo è non pensare troppo.
Scrivere qualche cosa senza senso - che magari il senso lo troverà strada facendo.


Quindi sono in treno, di ritorno da Venezia, e smetto di riflettere. Le riflessioni le lascio solo scorrere sopra il finestrino, nelle campagne grigie fra Veneto e Lombardia, spruzzate di neve che ha appena cominciato a scendere, che sembrano addormentate.
In treno il riscaldamento è acceso, ma c'è come una lama sottile di freddo che rimane sotto a tutto, che ti resta nelle ossa.
C'è un brusio di fondo, bambini che strillano.
Metto un po' di musica.
E forse non è del mio silenzio che dovrei scrivere.
Forse dovrei lasciare da parte il silenzio, e lasciar parlare Venezia.


Venezia non è silenzio.
Non durante il ponte dell'8 dicembre - o in qualsiasi altra occasione in cui venga presa d'assalto come le Termopili dai Persiani. O come un negozio Pandora da un esercito di femmine beta.
Ci sono i rumori dei turisti - voci che chiacchierano, in un centinaio di lingue diverse, che chiedono di farsi fare foto, che indicano, che commentano le vetrine dei negozi, che si lamentano.
Ma questi non sono i rumori di Venezia.
Sono i rumori delle persone che arrivano qui.
Che rumori avrebbe Venezia, se fosse da sola?


Forse Venezia è davvero silenzio.
Ha la forma di un pesce, un grande pesce di pietra che domina la sua Laguna.
E' intessuto di calli sinuose, irregolari, che sono le sue vene, i suoi capillari, ma anche le sue lische.
Questo suo apparato scheletrico o circolatorio, questo suo organismo di pesce, è difficile da percorrere, a volte, se devi raggiungere punti meno celebri di San Marco, o Rialto, o la stazione, che sono perennemente segnalati in ogni dove, con delle frecce gialle che sembrano le briciole di pane di Pollicino.
Cambiano nome all'improvviso, oppure ce l'hanno doppio - oppure c'è una svolta a gomito repentina, come un singhiozzo che ti fa inciampare inaspettatamente in una specie di altra dimensione, e di nomi non ce ne sono più.
Quasi ti viene voglia di smettere di cercare i posti e lasciare che siano loro a trovare te.


Si gira a piedi, questo labirinto di pesce, oppure scivolando sull'acqua - e già questo è silenzio.
Passi sulla pietra, e barche che fendono l'acqua sono non-rumori. E sono di Venezia.
I passi più spediti e rapidi sono dei Veneziani.
Sono di chi conosce il labirinto perché ne fa parte.
Che poi è l'unico modo per conoscere un labirinto - sentirsene parte almeno un po'.
Capirlo.
E, forse, prenderlo un po' per scontato - come tutte le cose che si devono vivere nel quotidiano, nella fretta del dovere, nella routine. Come tutte le cose che si possiedono.
I Veneziani sono sempre un po' infastiditi dai turisti: sono quasi un'invasione, intasano le calli, vagano con lentezza, il naso all'insù a cercare posti che non trovano - o forse a cercare niente, solo a stupirsi, o magari a comprare maschere e gondole come souvenir e poi a tornare a casa, in tante parti del mondo, a dire, in tante lingue diverse, "Venezia è bella, ma quell'odore di umido...".
Venezia non è facile.
Per viverla devi sceglierla - o forse deve essere lei ad aver scelto te, come fa un gatto col suo umano preferito. Mai padrone, più che altro, magari, compagno. Non dispensato da graffi gratuiti, di quando in quando.
Vi dovete appartenere un po', se no non vi potreste sopportare. Non basterebbe tutta la sua bellezza, né tutto il tuo amore.


La devi vedere dall'alto, Venezia.
Funziona per tutte le città: è qualcosa che mi piace sempre fare, per capirle meglio. Per avere un'altra prospettiva e cogliere cose che dal basso, mentre ci sei dentro, non riusciresti mai a cogliere.
Non funziona solo per le città. Funziona un po' per tutto.
Il Fondaco dei Tedeschi era la sede centrale delle Poste.
Oggi è un centro commerciale di lusso: piccoli stand delle grandi firme occupano le nicchie medievali di pietra, e, sulle balconate, arazzi finti ma ben fatti indicano in quale reparto ci si trova. L'insieme è quasi armonico, non ci sono stonature. Il lusso in vendita si è ben integrato nella sobrietà architettonica che lo ospita.
E, soprattutto, il Fondaco ha una terrazza panoramica, a cui si accede gratuitamente, su prenotazione durante i giorni festivi.
Sulla terrazza l'aria è gelida, ma ovunque ti giri c'è Venezia: il cielo plumbeo, le pietre bianche ed arancioni, il serpente verde-blu del Canal Grande, i campanili e le cupole.
Il silenzio, da qua.
Tutti parliamo poco, perché fa freddo. E perché quando le cose sono belle non c'è mai molto da dire. Più che altro da guardare.
Vedere le cose dall'alto è una sintesi.
Ti fa cogliere tutta la bellezza, tutta l'essenza di un luogo in un solo respiro, girando su te stessa a 360 gradi.
Ma ti fa anche capire dove vuoi continuare, cos'altro vuoi esplorare.


Piove.
Venezia sotto la pioggia scivola via.
E' un gatto arruffato di cattivo umore. E' uno scontro di ombrelli in mezzo alle calli più strette.
E' lucida e nebbiosa, le gondole scivolano lo stesso sull'acqua verdognola ma senza americani ricchi che non si vogliono perdere l'esperienza.
Piazza San Marco è vuota, sono tutti a cercare riparo sotto i portici della Basilica.
Da lontano San Giorgio e le altre isole della Laguna sembrano fantasmi sfumati, fatti di nebbia sfilacciata e densa.
Nei momenti di tregua reclini l'ombrello e dai riposo al braccio, ti ripari col cappuccio, poche gocce fini di umidità che vengono a bagnarti il naso.
E in questi momenti te la godi un po', questa Venezia sotto tono, infreddolita ed un po' grigia come se si fosse appena risvegliata da una convalescenza. Trovi qualche angolo in cui non esistano ripari e in cui pochi temerari si stiano aggirando, e lo fai un po' tuo.


Venezia è fatta di angoli in cui arrivi per caso, per schivare il traffico denso di turisti.
Per cercare il silenzio.
L'invasione, per quanto cospicua possa essere, segue sempre delle regole fisse: San Marco - Rialto.
Per quanto sia alta la densità di turisti, se cerchi di schivarli, ti imbatterai sempre in qualche angolo dove non c'è nessuno.
Dove Venezia può essere Venezia, e parlare con la sua voce.
Poi, dopo la pioggia, arriva anche il sole, e questi angoli, quando scende il tramonto, cominciano a parlare - e quel che dicono sembra quasi una poesia, anche se non è fatta di parole.
I tramonti aumentano il calore delle tinte, accentuano le ombre perché le luci si fanno più potenti, più accecanti.
I tramonti sono un invito a fermarsi, a lasciare da parte per un attimo la frenesia e tutto ciò che è prosaico, e trovare il coraggio di sentire - la verità, e ciò che a volte ci si impedisce di sentire, ciò che si cerca di anestetizzare.
A volte è necessario farlo.
Ma, quando cala il tramonto, per qualche attimo, possiamo concederci di lasciarlo libero, come se potesse essere vissuto davvero.
Forse può servire per lasciarlo andare.
Si tingerà di rosso, come la luce del sole sulla Laguna, come il sangue e tutte le altre cose intense - e poi tornerà a nascondersi nell'ombra, per venirci a trovare solo ogni tanto, in qualche sogno.


O magari per dialogare col silenzio.
Per chi ha voglia di sentirlo, si fanno sempre dei discorsi bellissimi.
E, forse, ogni tanto si ha bisogno di ascoltarli.
Si ha bisogno di cercare il silenzio, per poter ritrovare la propria voce.

4 commenti:

  1. Il rumore di Venezia è quello delle favole, lo senti se ci credi e se vuoi trovarci una morale...barbs

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  2. Ma quindi questo post l'hai scritto tu o Venezia? ;-) Comunque, una bella immersione tra pensieri e immagini.

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    1. Forse Venezia si è impossessata un po' della mia tastiera :-)
      Grazie Anna!!

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