Il mare è un amore universale. Lo è, alla fine, perché ha diverse, quasi infinite declinazioni: è fatto di superfici, luminose e ridenti...

Le alghe di Playa Maroma e il lato positivo Le alghe di Playa Maroma e il lato positivo

Le alghe di Playa Maroma e il lato positivo

Le alghe di Playa Maroma e il lato positivo


Il mare è un amore universale.
Lo è, alla fine, perché ha diverse, quasi infinite declinazioni: è fatto di superfici, luminose e ridenti, ed è fatto di profondità, di segreti insondabili, di libertà selvaggia e di paura.
Quello che mi piace del mare è questa contraddizione: quella di darti l'impressione di essere fatto di misteri incomprensibili, e al tempo stesso di piaceri semplici - la sabbia umida sotto ai piedi, la danza eterna delle onde, che scappano e poi tornano, e di tanto in tanto ti regalano qualcosa; il vento fra i capelli, il sale sulle labbra, il colore azzurro, diverso eppure uguale a quello del cielo.
Cose di cui ci si dimentica quando si è lontani.
Cose che sono come una terapia, quasi una specie di anestetico - qualcosa che culla i pensieri, che disinfetta le ferite: non li fa sparire, li zittisce solo, per qualche attimo.




Il mare è universale, eppure ci sono mari diversi.
Come ti immagini il Mar dei Caraibi?
Nella mitologia comune ci sono i pirati, le spiagge bianchissime con la sabbia impalpabile. Jack Sparrow che arranca su una di queste spiagge, con i pantaloni arrotolati e l'aria scazzata chiedendo come mai sia finito il rum. C'è una canzone di Enya che ne esalta il colore blu - che si comincia a vedere dal finestrino mentre stiamo atterrando all'aeroporto di Cancun.
Non si vede più lungo l'autostrada, che si snoda dritta e pulita, un susseguirsi di cartelli con nomi famosi - cenotes e piramidi Maya, e spiagge della riviera.


I resort sono enormi, come se i turisti fossero delle nuove divinità, dei nuovi conquistadores, anche se non sono spagnoli.
Il nostro ha un pezzetto di giungla incorporato - e della giungla conserva la frescura umida, gli squittii e i fruscii misteriosi in mezzo alle frasche che ti fanno fermare ad aguzzare la vista in mezzo al fitto fogliame, un po' con timore, un po' con curiosità, per capire chi sia a produrli.
Ogni tanto qualche creatura si manifesta - ma è difficile dargli un nome: siamo finiti su un diverso troncone dell'evoluzione darwiniana - sono animali "che assomigliano a ", "a metà strada fra", un po' come quando da bambini si incollavano pezzi di figure e si inventavano nuovi bestiari immaginari: naso di elefante, collo di giraffa, corpo di armadillo, che erano ritardatari, o forse non erano stati informati, e non avevano fatto in tempo a salire sull'Arca di Noè.
Gli animali della nostra piccola giungla non sono puzzle così estremi, ma sono comunque creature che nel nostro pezzo di continente non si sono mai viste - per quanto manifestino un certo grado di parentela con altre che ci sono più familiari.


La maggioranza etnica è rappresentata dai coati, che, se li avessi dovuti creare con un collage da bambina, avrei mescolato un procione con un formichiere.
Ricordano vagamente l'animaletto con la ghianda de L'Era Glaciale; ma, quando ti puntano per mendicare cibo, anche il Gatto con gli Stivali di Shrek che fa gli occhioni acquosi ed imploranti.
C'è l'ordine tassativo di non dar loro da mangiare, per il loro bene, ma loro ci provano lo stesso. C'è anche l'ordine tassativo di non toccarli, per il tuo bene, dal momento che sono dotati di zanne ed artigli non indifferenti - ma qualcuno ci prova lo stesso.
La loro lunghissima e soffice coda a strisce è una tentazione troppo forte.
E, intanto, se tutti i turisti resistono stoicamente al loro sguardo da Gatto di Shrek, si mettono a ruminare nel terriccio col loro lunghissimo naso in cerca di insetti e semi.


"Com'è già che si chiamano?"
"Coati"
"Coati"
"Sì"
"Che nome difficile"
"E' come i coatti, ma con una t sola"
"Ma poverini che ruminano così nella terra. Perché devono fare tutta questa fatica?"
"Non dargli da mangiare eh? Lo sai che non si può"
"No no..."
"Ma allora perché ci stanno arrivando addosso come i piccioni in Piazza San Marco?"
"Ho solo un po' di pane in borsa"


I coati ci accerchiano come una gang di quartiere con qualcuno da bullizzare.
E' incredibile come siano più strategici ed organizzati loro della maggior parte degli uffici pubblici italiani.
Arriva un inserviente che ci chiede se abbiamo cibo.

"No no, no food"
"They smell food, even if you hide it"


Ecco a cosa serve quella proboscide.
Gettiamo il pane nella foresta appena l'inserviente gira i tacchi, e li depistiamo. Si fiondano tutti dietro all'ambito bottino.
Sulle pietre roventi a bordo della piscina sonnecchia un'enorme iguana, lunga quasi un metro.
"A lei niente pappa?"
"No, è brutta"
"Questa però è discriminazione"
Appena ci sente arrivare, l'iguana fa una rapida retromarcia con una certa non-chalance in un anfratto del terreno.
Al contrario dei coati, le iguane sono molto riservate.
O forse sono solo stufe di sentirsi dire che sono brutte.
Di sicuro la vita è più facile se sei un soffice coato dagli occhioni espressivi.


Corro veloce verso la spiaggia.
La sabbia dei Caraibi è davvero impalpabile come farina, e, come la farina, è altrettanto bianca. Il mare è sfumato, dal verde acqua al blu intenso, e, pur essendo cristallino, ha qualcosa di selvaggio, di ribelle. Il vento lo sferza, e sembra quasi un moto di orgoglio, un ruggito.
A pochi passi dalla riva, c'è la piaga che da un paio d'anni sta flagellando il turismo balneare dello Yucatan, de che è anch'essa la suppurazione di una delle tante ferite che noi umani abbiamo inflitto al pianeta che abitiamo: le alghe.
Chi, volente o nolente, ha trascorso le vacanze estive della propria infanzia sulla riviera romagnola ricorderà l'incubo mucillagine - e questo, beh, è una versione estesa in maniera proporzionale al rapporto dimensionale che c'è fra il Golfo del Messico ed il Mar Adriatico. E qui non c'è nemmeno Vanna Marchi a trasformarle in impiastri di bellezza (o presunta tale).


Le alghe messicane sono grosse e carnose, assomigliano a cespugli di vischio ma dalla consistenza più gelatinosa, e, quando toccano riva, lo fanno in quantità tale da creare una sorta di barriera vegetale puzzolente fra la terra ed il mare.
Davanti ai resort, bobcat e uomini armati di rastrello lavorano continuamente per spostarle, e trasformarle in montagnole somiglianti ad un mostro degli abissi impanato e momentaneamente addormentato che vengono imboscate lateralmente, vicino alle staccionate, per infastidire un po' la concorrenza di fianco.
Ma il loro lavoro assomiglia un po' ad un supplizio di Sisifo, o all'operosa disperazione di quell'altro tizio che voleva svuotare l'oceano con un secchiello.
E, nei punti di spiaggia libera, prosperano allo stato brado, coprendo quasi per intero la lingua di sabbia fra il mare e la foresta - a volte quasi impossibilitando l'ingresso in acqua (a meno che non si riesca a vincere la repulsione per il loro tocco viscido - e non è stato il mio caso).


Il "meteo-alghe" non è tutti i giorni lo stesso.
Ci sono giorni in cui va meglio ed altri in cui va decisamente peggio.
C'è stato anche un giorno in cui non si sono proprio viste, una di quelle rare e preziosissime giornate in cui, inspiegabilmente, gira tutto talmente bene che sei quasi tentata di puntare un terno al lotto per cavalcare l'onda verde della fortuna.
Il giorno successivo a questo è stato il peggiore in assoluto - in piena ottemperanza della legge di Murphy della botanica marina.


Non si va in Messico per andare al mare - è questo il mio modesto parere: le sue spiagge hanno benissimo il potenziale per essere meravigliosamente caraibiche; ma se desideri solo questo - palme, sabbia bianca, acqua trasparente - forse è meglio dirottarsi su Santo Domingo, su Antigua, sui tanti cayos di Cuba.
Qui, alghe a parte, sarebbe decisamente un peccato limitarsi alla vita da spiaggia: lo Yucatan è punteggiato di siti maya, di bellezze naturali, di villaggi variopinti, di foreste di mangrovie, di saline e fenicotteri, di cenotes e folklore - è una terra fatta per un altro tipo di turismo, curioso di esplorare, famelico di conoscere tradizioni e cultura. Sembra quasi uno spreco trascorrere il tempo in spiaggia con tutto quello che c'è da scoprire intorno.
Però, certo, come tutte le scelte bisogna essere consapevoli di poterle fare.
"Io delle alghe non ne sapevo nulla. Ma ormai sono abituato che non mi vengano dette le cose" dice un tizio con il giubbotto da Indiana Jones mentre andiamo a fare un'escursione che lui pensava avesse anche compreso lo snorkelling ma non è così.
Non gli dicono le cose e del resto lui non legge le tre righe di descrizione che accompagnano ciascuna gita sul foglio che al resort ti offrono il primo giorno.
La comunicazione è sempre bilaterale, ma del resto è anche vero che il cliente ha sempre ragione - e in questi casi è necessario appurare che il messaggio sia stato recepito.


Al mattino presto, sulla lunga spiaggia bianca che si snoda libera oltre la sequela di resort impilati uno di fianco all'altro, non c'è quasi nessuno.
Il sole è sorto da poco, ed  è uno spettacolo che non mi voglio mai perdere: il mare che prima era buio, prima di tornare al suo colore cristallino che sa di infinito e di libertà, deve diventare argenteo, deve infuocarsi, deve accendersi di sfumature aranciate che assomigliano a delle emozioni forti.
Poi - torna ad essere quel che era, ma lo fa passando attraverso un momento di silenzio e pace, quasi una quiete dopo una tempesta che in realtà non era una vera tempesta, ma solo un cambiamento: la luce è più gentile, l'aria tersa, la brezza che soffia è fresca e leggera - è uno stato di grazia, come quando la vita finalmente ti abbraccia anziché prenderti a schiaffi, e per qualche attimo riuscite a fare pace, a guardarvi negli occhi, e tu riesci a dirle che, tutto sommato, è fantastica: e lei dice a te che, tutto sommato, finora te la sei cavata alla grande.


Ci sono dei pellicani appollaiati su una torretta di guardia abbandonata.
Qualche fregata nera ogni tanto plana nel cielo e mi fa alzare lo sguardo: assomigliano a rondini più lunghe e squadrate - sembra quasi che siano state create dai disegnatori di Batman.
L'acqua trasparente è più calma e placida, mentre ci cammino dentro mi imbatto in branchi di piccoli pesci che nuotano frenetici.
Sulla battigia, in mezzo ai ciuffi color senape delle alghe, si trova anche qualche minuscola conchiglia rosa.
Ogni tanto c'è un tronco appoggiato sotto alle palme, sbiancato e levigato dall'acqua e dall'aria salata: mi siedo - all'ombra, al fresco, di fronte a me solo la distesa infinita sfumata di blu.
Il cellulare non prende, non c'è nessun altro essere umano d'intorno.
L'unico rumore lo fa la brezza leggera, e ogni tanto qualche uccello di passaggio.


Ci sono le alghe, sì.
E le alghe, di fatto rovinano questa spiaggia bellissima - questo è innegabile.
Però è altrettanto innegabile che questa spiaggia rimane sempre bellissima, nonostante le alghe.
Dipende un po' da come scegli di vederla, e, certo, mettere in pratica la seconda visione non è sempre facile: ci sono anche dei fattori esterni che la influenzano - ad esempio quanto sei in pace col mondo, e non venite a dirmi che è una condizione solo ed esclusivamente in nostro potere, perché anche il mondo a volte ci mette decisamente del suo.
Però, ecco, penso che dovremmo prendercelo un po' come impegno - o come obiettivo, se è una parola che vi piace di più perché suona più da persone di successo: riuscire, almeno una volta al mese, a vedere, e anche a sentire, la bellezza - nonostante tutte le alghe che la nostra vita inquinata ci manda a riva.


Serena Chiarle

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