Quando si attende qualcosa, che sia fonte di gioia o fonte di ansia, il tempo è sempre dilatato: è l’attesa stessa a gonfiarlo, e continua a gonfiarlo mentre ci cammini sopra – e ti sembra che l’orizzonte si allontani, anziché avvicinarsi. Se poi, per caso, quello che stai aspettando è un tramonto estivo in Islanda, la dilatazione percepita è ancora più infinita, perché non hai più a disposizione i tuoi comuni punti di riferimento temporali. Un tramonto estivo in Islanda arriva tardi, molto più tardi; e fin qui – è una elementare nozione di geografia. Ma il fatto è che, anche i cambiamenti di luce e di colori del paesaggio che normalmente ne sono il preludio qui sembrano essere diversi – o meglio, sono rallentati: è come se tutto durasse molto di più, un crepuscolo in slow motion che procrastina al limite del lecito tutte le sue fasi.
“Dai, aspettiamo ancora un po’” ci diciamo, per motivarci a vicenda – come quando si decide di iscriversi in palestra assieme, e nessuno ne ha voglia, ma, spintonandosi gli uni con gli altri, si è più restii a cedere. La sveglia stamattina è stata antelucana ed impietosa, e la maggior parte della giornata è trascorsa macinando chilometri – in autostrada, in aereo, vagando a piedi per i terminal dell’aeroporto di Copenaghen fra Lego, hamburger, caffè da Starbucks. La stanchezza sta ormai calando impietosa come cala la nebbia d’autunno in tangenziale, e il soffice letto del nostro hotel ci chiama come una sirena maliarda; ma abbiamo un obiettivo – che evidentemente non è dimagrire, bensì fotografare questo dannato tramonto vichingo, che si sta facendo attendere come una diva capricciosa alla quale non abbiamo nemmeno pagato il biglietto.
Stiamo vagando per Reykjavik da qualche ora ormai – o forse sono giorni, o magari soltanto minuti: è difficile dirlo. Il mio orologio direbbe che sono quasi le dieci di sera, ma in questo momento il tempo è un concetto che mi lascia quanto mai perplessa: aveva ragione Bergson a dire che è relativo, e, forse sarà l’intontimento per il sonno che sta continuando a bussare, o più probabilmente siamo finiti in una sorta di paradosso spazio-temporale, ma non sono sicura che le lancette che porto al polso siano ancora un punto di riferimento affidabile. Corrugo la fronte, slaccio il cinturino e me lo infilo in tasca.
Siamo a Reykjavik, e tutto è diverso.
C’erano 40 soffocanti gradi, nell’agosto italiano che ci siamo lasciati alle spalle stamattina; qui c’è un sole tiepido ma non sfacciato, una brezza fresca, sottile come una carezza che arriva dal mare, e stiamo girando con la giacca – ma questo faceva decisamente parte dei piani. Il resto – forse no; ma credo che sia questo il bello quando viaggi: che i piani non puoi mai farli troppo dettagliati; e che, in ogni caso, quello che incontri non sarà mai completamente come te lo aspettavi.
Reykjavik è una capitale giovane e semplice, tranquilla, forse quasi anonima – ma con tutto ciò che le serve. E all’Islanda non servono le città: l’Islanda è una terra selvaggia, fatta di estremi e fatta di solitudine – in Islanda regna la natura, non il cemento; la sostanza, non la superficie. Ma questo dobbiamo ancora scoprirlo: per ora Reykjavik è il biglietto da visita che abbiamo a disposizione, e, nella nostra trance un po’ impaziente, la stiamo esplorando con una casualità ipnotica, seguendo quell’istinto che ti porta a vagare a caso, a perderti un po’, ma che, a volte, rompendo gli schemi ed i convenevoli delle mappe, riesce a svelarti aspetti più autentici.
Reykjavik, fondamentalmente, è strana per essere una capitale.
Sembra più la versione tascabile di una capitale, con i suoi 120 mila abitanti scarsi. E, forse per questo motivo, è molto alla mano, fatta di file di condomini bassi e sobri, grigi e squadrati, e qualche agglomerato di casette più piccole e variopinte, con i tetti in lamiera. Più che una capitale nordica, sembra una periferia di una capitale nordica – ma l’Islanda, dicevamo, è un posto relativo, e qua non servono metropoli, storia, frenesia per stressarsi o per sentirsi vivi. L’Islanda è una terra selvaggiamente introspettiva, fatta di silenzi intensi, di natura bellissima e spietata. Gli agglomerati urbani sono solo un corollario, una concessione scocciata all’epoca moderna ed alle sue regole confortevoli e schiaviste di civiltà.
Forse, più che una città, è come se fosse un accampamento di un clan: minimale, restia alle apparenze ed agli status symbol, quasi come se poco gliene importasse di marcare in qualche modo il territorio, perché non gli appartiene, perché sa già che sta per ripartire. Eppure ha anche qualche dettaglio delicato – fiori variopinti, cuori pennellati per terra, tendine di pizzo alle finestre delle case col tetto in lamiera – e questi sono quasi come una carezza burbera, che ti dice che, in fin dei conti, non le dispiacerebbe restare.
Vaghiamo per queste strade che quasi sono vicoli, non in cerca di qualcosa, ma sperando in un certo senso di trovarlo – come fa chi è sospeso in un’attesa che non si sa bene quando finirà, e, nel mentre, prova ad ingannare il tempo; pur con la consapevolezza che di solito è in realtà lui che inganna noi.
E, questo strano tempo vichingo dilatato, stiracchiato come un felino che si allunga sornione, ha un sorriso enigmatico, che può essere benevolo oppure beffardo.
Nel centro di Reykjavik si dice si possano incontrare le oche selvatiche: noi incontriamo solo gatti, ma del resto è questa la nostra vocazione. Ce n’è uno nero, con le zampe bianche come se indossasse le ghette: ci guarda, studiandoci, poi decide che si può fidare, e si avvicina con la coda alta, festoso.
Le persone invece camminano tutte a passo svelto, da sole o a piccoli gruppi: è sabato sera, e tutti stanno andando da qualche parte – solo noi stiamo vagando un po’ senza meta, per fare conoscenza di questa minuscola capitale fuori dagli schemi.
E, in teoria, anche per cercare da mangiare.
Il nostro obiettivo iniziale era un ristorante thailandese segnalato sulla Rough (sì, lo so, mi direte – perché vai in Islanda per mangiare thailandese? Ma giuro che prima o poi andrò anche in Thailandia a mangiare islandese). In linea teorica il locale in questione si trova in Frakkastigur – ma il problema è che il nome di questa via non riusciamo a ricordarcelo, e allora, per memorizzarlo, lo abbiamo italianizzato in “Fra Castigo”, che suona un po’ come un monaco che abbia qualche segreta propensione bondage non propriamente consona al suo status. E non riusciamo a smettere di ridere.
Ma questo, fondamentalmente, è un problema del tutto minimale.
I veri problemi sono altri.
Ad esempio il fatto che questo posto in realtà non esista. Non c’è nulla di nulla al numero civico che la guida indicava. Nemmeno un parrucchiere cinese o un’agenzia immobiliare. Ci siamo intrufolati in un cortile, sperando, come ultima spiaggia, che si nascondesse lì dentro, senza nemmeno un’insegna sulla strada che potesse fare da richiamo per i clienti (si sa, questi vichinghi sono spicci, e, a modo loro, anche un po’ timidi – non amano farsi troppa pubblicità): ma no, c’era solo un cortile, bianco, sobrio e lineare, come i palazzi prefabbricati che lo delimitano.
Poco male, non mangeremo thailandese in Islanda.
Stiamo dunque cercando un’alternativa, cosa che ci sta procurando tutto questo vagare più o meno casuale, guidati non da una mappa o da un criterio razionale, ma semplicemente dall’istinto, dallo stomaco che, intorpidito dalla stanchezza del viaggio, è sospeso anche lui in una bolla, che lo anestetizza e non lo fa brontolare – ma anestetizzato non significa assente. Perché poi qui si presenta un altro dei veri problemi, appena di un grado più seri di Fra Castigo, il domenicano sadomaso: l’Islanda è cara.
E, quando dico “cara”, intendo che in confronto la Svizzera sarebbe stata la vacanzina low cost che si fa con gli amici come premio per la maturità. I prezzi sono espressi in corone islandesi, quindi, non appena ci metti piede e ancora non ti sei abituato, non lo percepisci immediatamente. Poi ti fai il calcolo mentale e ti dici “No, non è possibile – avrò sbagliato, sarà il rimbambimento”. E invece no, hai contato giusto: un panino 20 euro. Se ne aggiungi altri 10 puoi avere anche una zuppa “all you can eat”: ti danno la scodella e te la puoi riempire quante volte vuoi, fino al limite della decenza. Grazie, è un’offerta generosa – ma in fin dei conti sono poi licheni bolliti nel latte. E non storcete il naso: la zuppa di licheni era buona – particolare, un po’ dolciastra, ma a suo modo saporita. Penso che lo valesse quel sovrapprezzo di 10 euro: del resto a Torino non crescono i licheni, non so quando mai potrei riavere l’occasione di assaggiarla. Ah già – dimenticavo: quando andrò in Thailandia a mangiare islandese. Ammesso che là riesca poi a trovare il ristorante, e non mi metta a vagare a caso per le vie di Bangkok – che forse è potenzialmente più rischioso che farlo per quelle di Reykjavik. Per un attimo accarezzo l’idea di un mix fusion con la bagna cauda – ma non vi preoccupate, è solo un attimo, passa in fretta anche se qui il tempo è dilatato.
Ah, e poi: le aringhe alla cannella.
Un’altra prelibatezza locale. E non sono ironica: le ho trovate squisite ed insolite. Se non riuscite ad immaginare la combinazione di sapori che possono avere le aringhe e la cannella – beh, desistete nel tentativo, perché in realtà le aringhe alla cannella non sanno né di aringhe né di cannella. Ma la descrizione del loro sapore è una delle tante cose per cui le parole mostrano il loro ineluttabile limite: un po’ come quando in The City of Angels l’angelo Nicholas Cage chiede a Meg Ryan di cosa sanno le pere.
Se mai dovessi incontrare il mio angelo custode probabilmente mi chiederebbe di cosa sanno le aringhe alla cannella, e io, come Meg, non glielo saprei dire.
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Zuppa di licheni :) |
Con la pancia semi-piena di aringhe e licheni, la visione delle cose si fa più chiara e la consapevolezza aumenta.
Ad esempio ci rendiamo conto di essere a due passi da lei, la Hallgrimskirkja – che, oltre ad essere il simbolo di Reykjavik, è davvero difficile da non notare. O, forse, è proprio questo il motivo per cui è diventata un simbolo.
La Hallgrimskirkja vista così sembra una navicella spaziale, ma in realtà è una chiesa: è imponente come una cattedrale gotica, e, con le cattedrali gotiche, condivide l’aria misteriosa e l’aspetto mistico – solo che il suo non è un misticismo medievale, fatto di simboli, chiaroscuri e ricami complicati come le sfaccettature di quello che la Chiesa definisce peccato; è più un misticismo asettico nelle forme, per ricordare che è fatto solo di sostanza, che non ha bisogno di altro che di se stesso, della grandezza della sua mole spirituale, per elevarsi fino al cielo. E lo fa con questo altissimo campanile, che sembra fatto di ghiaccio e che è freddamente dominante nell’austera sobrietà dei suoi 73 metri.
È una spiritualità vichinga moderna, ed è un edificio che ha avuto riscontri controversi all’interno della comunità locale quando è stato eretto. Chissà se fra qualche secolo ci sarà qualcuno che, ammirandolo, resterà a bocca aperta come noi oggi facciamo con le cattedrali gotiche. Chissà se, quando erano state edificate le prime cattedrali, qualcuno vi aveva inveito contro, definendole mostri, per la loro presenza ingombrante ed invasiva all’interno dello skyline cittadino.
In ogni caso, anche in questo Reykjavik va controtendenza: questa sua moderna cattedrale, dalle forme aliene o glaciali che dir si voglia, non è dedicata a nessun santo, a nessun uomo di chiesa – bensì ad un poeta religioso, Hallgrimur Petursson, che, con i suoi canti, nel XVII secolo, aveva saputo professare la sua fede secondo il dono che gli era stato dato in sorte.
I lavori per la sua costruzione erano cominciati subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma erano poi stati ultimati solo una trentina di anni fa: la costruzione è stata affidata ad una piccola ditta famigliare, che, come i costruttori di cattedrali nel Medioevo, ha finito per dedicare gran parte della vita a tirare su questo edificio grandioso e che sicuramente si fa notare. Come diceva Oscar Wilde “O bene o male, l’importante è che si parli di me”.
O si ama, o si odia. E, beh, ecco – come dire: sarei davvero curiosa di conoscere qualcuno che la ami per poter sentire le sue argomentazioni in merito.
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Hallgrimskirkja |
Di sicuro questo qualcuno sembrerebbe non essere l’eroe vichingo Leifur Eiriksson, la cui statua svetta proprio di fronte alla mastodontica chiesa – dandole però le spalle.
Leifur preferisce scrutare l’orizzonte: il porto di Reykjavik in basso, ai suoi piedi, da dove era salpato anche lui con le sue navi, e, più oltre, la baia, il mare, l’orizzonte lontano ed indefinito con i suoi misteri da scoprire, le sue potenzialità da rivelare.
Eiriksson è stato riconosciuto ufficialmente da qualche decennio come il primo scopritore dell’America: al contrario di Cristoforo Colombo non aveva sponsor celebri, e nemmeno l’abitudine di scrivere un diario di bordo – poi, diciamo che questa abitudine vichinga di tenersi tutto per sé ha finito per rivelarsi un po’ controproducente, non solo per la sua fama, ma soprattutto per il fatto che il mondo occidentale ha poi dovuto attendere fino al 1492 per scoprire qualcosa che era già stato svelato qualche secolo prima.
Però io Leifur un po’ lo capisco, e non so fargliene una colpa. Sarà che apprezzo il fatto che stia preferendo contemplare il mare anziché quella cosa che ha alle spalle – e, essendo obbligato a farlo per l’eternità, o, perlomeno, per una porzione abbastanza consistente della medesima, è stata indubbiamente una scelta saggia.
La statua del Vichingo è imponente, ma, messa così, a ridosso dell’immensa chiesa aliena, sembra una formica che vaga sulla Grande Muraglia. Però il suo colore scuro lo fa risaltare, stagliandosi contro l’immensa massa bianca – anche in questo strano crepuscolo che coincide teoricamente con quello che per noi dovrebbe già essere quasi notte: ma il sole islandese è un fiero combattente, tarda a morire. Risalta come il puntino nero all’interno dello yin, come un contrasto – e forse era proprio questo che gli abitanti di Reykjavik hanno voluto fare, piazzandolo lì: ricordare le loro due anime, quella moderna e quella antica, le loro radici che sono fatte di guerrieri, navigatori, uomini che preferiscono sempre avere lo sguardo rivolto all’orizzonte e non fermarsi mai, nemmeno quando diventano statue.
Che poi, detto fra noi, secondo me, Fra Castigo deve aver lavorato in quella chiesa lì. Non so perché, ma mi sembra in qualche modo adatta a lui.
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Hallgrim & Leifur |
Il porto è luminescente, negli ultimi attimi in cui l’impavido sole riesce ancora a lottare per sopravvivere.
Fra le imbarcazioni che beccheggiano ormeggiate c’è anche la nave scuola della Marina Italiana, l’Amerigo Vespucci: forse i nostri aspiranti ufficiali sono venuti a rendere omaggio a Leifur, a chiedergli consigli di navigazione, anche se di continenti da scoprire non ce ne sono più – e, del resto, Vespucci aveva poi a sua volta continuato l’opera cominciata dal vichingo, spingendosi più a sud.
Ora in realtà mi sto domandando se la nave scuola della Marina islandese sia intitolata a lui – e credo che Google potrebbe facilmente risolvere l’enigma; ma la nostra attenzione è catturata da un altro edificio imponente ed esteticamente controverso.
L’Harpa è il teatro dell’opera di Reykjavik – e, anche in questo caso, a vederlo forse non si direbbe. Ma è solo perché noi europei continentali abbiamo settato in testa uno stereotipo diverso per il concetto di “teatro dell’opera”: questo sembra più un palazzetto dello sport, un’arena per concerti sì, ma di musica rock.
Però, via – Islanda uguale cose diverse, ormai non perdiamo più tempo ad argomentare e apriamo i nostri filtri mentali al “liberi tutti”. Perché del resto un edificio romboidale, un po’ sghimbescio, scuro ed imponente come la Morte Nera, completamente tempestato di pannelli di vetro esagonali che dovrebbero ricordare le formazioni laviche ma, con i loro riflessi luminosi cangianti, a me fanno venire più in mente gli occhi delle mosche – perché, dico, non potrebbe candidarsi a diventare teatro dell’opera, se solo lo volesse?
Esattamente come un abbinamento fra aringhe e cannella può diventare una squisitezza: qui le regole non valgono.
Entriamo nel suo ventre, forse aspettandoci di trovare Darth Vader, o un suo cugino vichingo, che prova a gorgheggiare la Traviata – e invece c’è l’elegante ingresso al teatro, minimal chic e anch’esso dall’aria un po’ aliena come certi loft impietosamente squadrati che compaiono sulle riviste di arredamento; e c’è anche un mercatino di prodotti artistici locali. Pecore di legno e lana grezza, poster dipinti a mano con sabbia nera, qualche troll di pietra. Tutti alla modica cifra di un rene.
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Tramonto sbirciato da dentro il ventre dell'Harpa |
Ma, alla fine, dai vetri gialli e verdi dell’Harpa, mentre stiamo guardando le barche a vela molto poco vichinghe che ondeggiano sulle acque basse e quiete del porto – eccolo, finalmente: il nostro motivo di attesa, quello che per cui abbiamo continuato a vagare senza meta fra case anonime, chiese esibizioniste, vichinghi serafici e pesce condito in maniera strana – Sua Maestà il tramonto.
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La riproduzione della barca di Leifur al porto |
Il tramonto di Reykjavik è bello, è struggente e carezzevole – forse come molti altri tramonti, ma qui credo sia l’attesa a renderlo speciale, ed è la dilatazione del tempo che lo fa scivolare piano, come una sinfonia lunghissima che non ti stancheresti mai di ascoltare perché ha qualcosa che ti ricorda qual è il motivo per cui sia bello essere vivi, sia bello essere qui in questo momento, in nessun altro posto, con nessun altro bagaglio, con nessun’altra storia da raccontare se non quella che hai.
Il sole finalmente si arrende, cala lento sulla baia lanciando raggi lunghi e letali come un’alabarda: trafigge gli alberi delle barche, colpisce di striscio la superficie dell’acqua, la fa sanguinare di riflessi tiepidi, intensi, un po’ maledetti come quelli che un eroe vichingo si porta dentro.
Sugli scogli lungo la baia ci sono sculture di pietre in equilibrio: è una forma d’arte che è anche una disciplina zen – perché, per impilare i sassi stabilmente gli uni sopra gli altri, è necessario prima riuscire a trovare l’equilibrio dentro di sé. È come uno scambio osmotico: l’equilibrio fuori si può solo creare se c’è anche dentro, ma creandolo fuori si aiuta a rafforzare quello che c’è dentro. Durano pochi giorni queste sculture, a riprova che trovare il giusto bilanciamento non è mai un obiettivo, ma un lavoro che va fatto quotidianamente, riadattandolo in base al flusso della vita, a quello che ti capita, che può aggiungere o può togliere – oppure entrambe le cose. Persino qui, dove il tempo scorre lento e la natura è ancora più importante dell’uomo.
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Le pietre in equilibrio |
Il tramonto accarezza anche loro, le pietre in equilibrio, riempiendo di luce morente i loro spazi vuoti, ricordando che anche le cose che finiscono hanno la loro bellezza – perché sono state, e perché assumono finalmente un significato, che è quello che ci possiamo portare dietro per sempre, come tassello portante per mettere in equilibrio un’altra pietra, o semplicemente per andare avanti.
Di fianco c’è la nave di Leifur: astratta e resa quasi immortale dal metallo che la riproduce – non più in mezzo alle acque che ha solcato quando era una vera barca vichinga di legno, che ha saputo spingersi fino all’America, ma appena sopra di esse, protesa verso lo stesso orizzonte che lo stesso Leifur, più in alto, sta contemplando. E, adesso, protesa anche verso la sinfonia di luci morenti che il tramonto sta disegnando sul mare e verso l’infinito.
Così come ci ha impiegato molto tempo ad arrivare, questo tramonto islandese dura altrettanto a lungo – tanto che quasi non si riescono a percepire le varie fasi, e si ha la sensazione che sia questo lo stato normale delle cose, che possa esistere un posto nel mondo in cui il sole è eternamente morente, in cui si viva per sempre in un tramonto.
Alle 2 di notte sono sveglia, e mi alzo per sbirciare attraverso le tende della nostra camera: il cielo è finalmente scuro, ma in basso, in lontananza, in punto distante dell’orizzonte, c’è ancora uno spicchio rossastro che spande luce.
Il sole di Reykjavik non si arrende mai.
Come un vero guerriero vichingo.
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