Il nostro albergo non è il Park Hyatt , però per qualche attimo ho l'impressione che lo sia. Gli somiglia, magari, vagamente - né più...

Lost in translation (A Black Cat in Tokyo) Lost in translation (A Black Cat in Tokyo)

Lost in translation (A Black Cat in Tokyo)

Lost in translation (A Black Cat in Tokyo)


Il nostro albergo non è il Park Hyatt, però per qualche attimo ho l'impressione che lo sia. Gli somiglia, magari, vagamente - né più né meno a quanto io possa somigliare, molto vagamente, a Scarlett Johansson, che alla fine abbiamo entrambe curve abbondanti, e labbra carnose, e occhi grandi, e capelli che stanno un po' così come pare a loro, ma chissà perché su di lei il tutto fa un effetto molto diverso che su di me.
Ecco, appunto, io non somiglio affatto a Scarlett Johansson.



E il nostro albergo non somiglia affatto al Park Hyatt - ma per qualche attimo, per i primi attimi confusi dal sonno e dal jet lag in cui ci troviamo sul suolo di Tokyo, l'atmosfera mi pare la stessa di "Lost in translation": una straniamento un po' ipnotico, come Alice quando precipita nella tana - il trovarsi in un universo parallelo, bellissimo ma strano, in cui tutte le regole ascritte che hai imparato, che dai ormai quasi per scontate, non funzionano più, e vai a tentoni, cercando di riscrivere la tua mappa interiore per orientarti, di rielaborare i tuoi punti di riferimento, di decifrare le nuove leggi implicite che sono in vigore in questo Paese delle Meraviglie, in cui si arriva non precipitando attraverso la tana di un coniglio frettoloso, ma con un volo di 16 ore.
Un volo a cui mi sono preparata allenandomi in palestra come se avessi dovuto andarci a piedi, fino in Giappone: non so per voi, ma per me funziona - se il giorno prima mi stanco i muscoli poi patisco meno lo stare seduta per molte ore in alta quota. E, mentre giravo in centro, c'era un gruppetto di giapponesi in visita guidata, che proseguiva ligio in file ordinate, scattando foto ed annuendo compitamente - e ho pensato "Domani facciamo cambio".

Che poi a me piace volare - stare sospesi sopra al mondo, starci lontani per un po'.
Leggo Murakami, guardo film, mangio poco, cerco di dormire e sogno cose strane: sogno Steve Jobs che diventa il mio capo, mostri che vengono uccisi ingiustamente e persone che si cercano e non si trovano.
Scrivo qualche pensiero sconnesso mentre sento profumo di noodles e mi viene fame. Forse siamo sopra la Cina. O la Russia, non lo so.


Gli aeroporti sono luoghi neutrali ma non troppo: contengono sempre degli indizi iniziali di ciò che ti aspetta fuori, della personalità del luogo che ti stai accingendo a conoscere - e io sono sempre curiosa, un po' famelica, allungo il collo, mi volto indietro mentre cammino velocemente fra la folla spingendo la valigia, perché voglio sapere, voglio catturare i particolari, voglio notare le cose, appuntarmi mentalmente gli indizi, rispondere alle domande, unire con la penna i puntini numerati per cominciare a disegnare una figura.
A Narita ci sono i distributori di bevande che hanno la Coca Cola alla ciliegia e la Fanta all'uva, un'agenzia viaggi con tanti depliant di viaggi in Italia che però hanno anche foto di Praga e Londra, un distributore automatico di bouquet di fiori e frecce colorate sul pavimento che indicano i corretti percorsi da seguire.


Abbiamo una navetta con i sedili rivestiti di pizzo.
"Uh guarda, anche quel taxi ha i sedili rivestiti di pizzo!".
E anche quello. E quell'altro laggiù.
Tutti i taxi e le navette giapponesi sono stati addobbati dalla nonna. E comincio ad immaginarmi stuoli di vecchiette in kimono sedute a sferruzzare a tutto spiano, con gli uncinetti che fanno scintille, all'ultima stazione della catena di montaggio della Toyota.

Nella corsia a fianco ci sorpassano automobili piccole e squadrate - sembrano quelle che disegnano i bambini.
Forse le signore che sferruzzano si sono portate dietro i nipotini e si sono infiltrati negli uffici di design?
O forse è perché così i parcheggi hanno un'apparenza molto più compatta ed ordinata?
Chissà.
Ma non è soltanto la loro apparenza cubica a sorprendermi: confesso la mia ignoranza, non sapevo che in Giappone si guidasse sulla destra.
Guidano sulla destra, fanno le file ordinate, bevono solo té e ci tengono parecchio alle buone maniere.
Mi ricorda qualcosa.
...coincidenze?
Non ho idea di quale potrebbe essere il legame che consente a Giappone ed Inghilterra di avere tutti questi punti in comune, ma di sicuro questo me lo rende ancora più simpatico.
Ancora più affine.


Fa caldo a Tokyo.
Un caldo diverso da quello che abbiamo lasciato, umido, invasivo. Il caldo dell'Asia.
C'è un rumore strano di sottofondo, come un frinire amplificato, che sembra quasi elettrico. Pare lo sfrigolio dei cavi ad alta tensione ma è ovunque. Si sente per strada, sul sovrappasso della stazione di Shibuya e persino dal minuscolo balconcino in ferro battuto della nostra camera al settimo piano, da dove si vede la Tokyo Tower illuminata.
Somiglia alla Tour Eiffel ma è dipinta con i colori della bandiera del Giappone e la fanno sembrare un gigantesco cono di quelli che si usano per segnalare i lavori stradali.
Domani ci andremo, a vedere la sua palla da baseball aliena e a guardare giù verso il basso dal pavimento di plexiglass.
E' bella Tokyo illuminata.
Ok, forse tutte le città lo sono, perché è come se indossassero un abito da sera scintillante - ma quelle più belle lo sono di più.
Indugio a guardarla, perché ancora non la conosco.
Ci sono delle promesse sotto quello scintillio. C'è la mia curiosità di esplorarla, la voglia di conoscerla.


E soprattutto devo sapere cos'è che fa questo rumore.


C'è più tecnologia nel bagno di un albergo giapponese che nell'Italia intera.
Lo guardo con un misto di timore reverenziale e di diffidenza, quell'asse del wc computerizzato.
Mi sento come gli Indiani d'America che non volevano lasciarsi fotografare perché avevano paura che il fotografo, immortalando la loro effigie, rubasse loro anche l'anima. Beh, non ho paura che mi rubi l'anima questo capolavoro dell'ingegneria degli scarti intestinali, ma la faccenda è comunque delicata.
C'è una consolle di pulsanti per regolarne la temperatura, il getto d'acqua, c'è il bidet incorporato e c'è persino della musica per coprire i rumori imbarazzanti. Mi sembra di sedermi su un'astronave, solo che su un'astronave credo che avrei le mutande addosso, quindi preferisco disattivare tutte le opzioni dell'asse magico. Quella della musica in realtà mi incuriosisce, perché vorrei sapere che genere di musica viene scelta per svolgere queste incombenze - ma ho paura che parta Gigi D'Alessio, quindi mi astengo dall'esperimento.


Il nostro albergo è un labirinto- quasi un paese messo tutto all'interno di uno stesso edificio.
Ci sono cinque ristoranti e ne vogliamo cercare uno per cena.
"Ginger Cat, a me va bene tutto tranne quello cinese - ho ancora in mente quel maiale immerso nella gelatina bianca che ci hanno dato sull'aereo per colazione, credo che me lo sognerò stanotte. Anzi, per il mio corpo è notte adesso, quindi me lo sto già sognando"
Seguiamo la freccia che indica il teppanyaki. Camminiamo per corridoi lunghissimi di marmo bianco con la moquette per terra. Le vetrate danno su un piccolo parco zen, compito e grazioso, che ci ripromettiamo di visitare dopo cena.
Ma dal parco continua a sentirsi quel rumore.
Ci fermiamo ad ascoltarlo incuriosite, per cercare di capire da dove provenga.
"Sono cicale" ci dice sorridendo una signora.
"Cicale??"
Io e Ginger ci guardiamo sgomente.
"Come può una cicala fare tutto questo rumore?"
"Temo di saperlo"
E infatti nella penombra illuminata ne intravediamo una volare da un albero all'altro, grande quasi il palmo di una mano.


D'improvviso mi passa la voglia di visitare il bel parchetto zen dell'albergo.
Ed acceleriamo il passo per cercare il nostro ristorante.
Camminiamo e camminiamo.
Scendiamo due piani di scale.
Al fondo delle quali non c'è niente.
Risaliamo.
Camminiamo.
Passiamo di fronte alla reception. Chiediamo informazioni al bell boy che si inchina sorridendo e indica dalla parte opposta rispetto a quella da cui siamo arrivate.
Camminiamo.
Altre scale. Una porta chiusa.
Un parrucchiere ed un piccolo supermercato. Le indicazioni le abbiamo perse.
Ecco!!
Laggiù!!
E' un ristorante quello là!! Terra!!
E' il cinese.
Va beh.
Però non prendo il maiale.

Non ricordo nemmeno se il cambio dello yen è a 117 o a 170 contro l'euro. Fa niente.
Ho fame.
Ed anche sete. Il cameriere che ci serve è giovane e molto sorridente. Sa dire "Certainly madam" ma poco altro.
Gli chiediamo still water. Non capisce. E' la parola still che lo manda in crisi, continua a ripeterla aggrottando le sopracciglia.
Ginger gli mima il gesto delle bollicine facendo fsfsfsffss con la bocca e poi lo fa seguire da un perentorio no.
Il ragazzo è ancora interdetto e chiama il suo collega dai capelli grigi che ha l'aria di essere il responsabile di sala e che sicuramente è più abituato alle bizzarrie degli occidentali.
Ci portano la nostra acqua naturale.
Nei distributori di bevande all'aeroporto avevo già notato che l'acqua frizzante non c'era. E non ne ho mai vista una sola bottiglia durante tutti i nostri dieci giorni in terra nipponica.
Poco male, io detesto l'acqua frizzante. E' un altro punto a tuo favore, Giappone.


Fra le tante cose che si danno per scontate nella vita, c'è il fatto di poter avere un letto in cui dormire.
Non è tanto per la sua morbidezza, o perlomeno non solo.
E' per il fatto di potersi mettere in posizione orizzontale.
E così faccio immediatamente, adagiandomi grata sotto le coperte che, per fortuna, grazie all'aria condizionata sono tollerabile nonostante l'afa.
Spero di non sognare il maiale in gelatina. E nemmeno le cicale giganti.
Spero di sognare tutta questa ridda di indizi che il Giappone in poche ore mi ha già dato. Di riuscire a metterli in ordine, unendo i puntini e cominciando a trovare un senso, un'interpretazione a questo nuovo mondo ancora tutto da esplorare.
Buonanotte Tokyo, domani ci conosceremo...

4 commenti:

  1. Le nonne che sferruzzano in Toyota sono un'immagine straordinaria... :-D

    RispondiElimina
  2. Il Giappone per me è una sorta di paese immaginario, il frutto della fantasia di un autore fantasioso. Così lontano geograficamente e culturalmente, così diverso da sembrare finto. Le poche cose che conosco sono quelle che associo ai cartoni animati di quando ero bambina, e questo lo rende ancora più affascinante. Tranne le cicale giganti, di quelle ne farei decisamente a meno ;) Aspetto di leggere anche le prossime puntate!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io l'ho vissuto davvero come una specie di universo parallelo. E' profondamente diverso, come cultura, regole implicite, mentalità... un libro complesso ed affascinante, che in 10 giorni, ho la sensazione di aver letto solo molto superficialmente.
      Le cicale giganti erano un po' inquietanti devo dire!!
      Qualcosina c'è già nei post precedenti, altro arriverà prossimamente :)

      Elimina