Non amo "fare cose" a Capodanno.
Non amo Capodanno, fondamentalmente. Mi piace fare bilanci di quel che è stato,
e ammetto di essere una persona che vive nel passato: non lo trovo un difetto,
se serve per imparare ed evolvere, per emanciparsi dalle zavorre che
alimentiamo da soli. Con il futuro però mi mantengo neutrale: è imprevedibile
come una belva lasciata libera, e ho sempre fiducia nei suoi confronti - ma non
credo negli imbonimenti fatti di fuochi d'artificio, né negli esorcismi a suon
di petardi; e secondo me nemmeno lui.
"Cosa fai a Capodanno?" è sempre una domanda a cui vorrei
non dover rispondere. A cui mi piacerebbe rispondere con quello che vorrei non
dover fare - tipo divertirmi per forza, perché il rumore, di solito, non mi
diverte mai, e la folla, se finisce per essere anonima, mi mette malinconia.
Vorrei che fosse legale poter non fare nulla, a Capodanno.
Poiché non lo è - ho deciso, quest'anno scappo.
Si può davvero scappare?
No, però forse lo si può circumnavigare, scivolandogli di fianco senza dover
rendere conto a nessuno.
Viaggiando, quindi.
Modena è stata una scelta nata lanciando una monetina
virtuale, una sera a cena in cui ho reclutato una complice per la mia Fuga dal
Capodanno – che mi auguro potrà essere più riuscita della tentata tragicomica Fuga dal Natale di cui aveva scritto
Grisham.
“Troverete
tanta nebbia” pronostica qualche Cassandra.
“Lo
so che ci andate per i militari”
ammicca qualche portinaia di sesso maschile, forse dimentica che ormai avremmo
un’età per cui al massimo potremmo interessarci ai generali, non più di sicuro
ai cadetti.
“Portatemi
della mortadella” chiosa qualcun altro più pragmatico.
E in fin dei conti che cosa conosco io, di Modena?
Oltre alla mortadella e all’Accademia Militare – l’aceto balsamico, direi. La
Ferrari, ovviamente. L’Osteria Francescana di Bottura. Le figurine Panini.
Ma queste sono tutte cose che Modena fa. Quello che sono curiosa di scoprire,
invece, è ciò che Modena è.
E Modena è la tipica città di quel prospero cuore, ricco in tutti i sensi,
del Centro-Nord italiano, che si sviluppa attorno alla Val Padana. A misura
d’uomo, produttiva ma non troppo frenetica, ariosa e curata, un centro storico
fatto di Medioevo e di colori pastello, stradine e portici che ospitano
eccellenze artigiane – si gira velocemente, ma al tempo stesso non ti
stancheresti mai di esplorarla, di cogliere nuovi dettagli, di approfondirne i
vari aspetti. Credo non si possa mai sbagliare, se si sceglie di visitare una
di queste città: si somigliano, per certi versi, come se fossero sorelle – ma
ciascuna ha una sua personalissima declinazione, un suo spiccato talento. Sono
eleganti in maniera gioviale, hanno, connaturata nella loro stessa atmosfera,
una spontaneità, un’accoglienza rilassata che ti fa quasi sentire a casa, anche
se non lo sei: una casa altrui, ma in cui sei il benvenuto. Un salotto buono,
ma non troppo formale, in cui sedersi comodamente e godersi il piacere delle
piccole cose della vita.
Anche perché, dei piaceri della vita, le città come
Modena hanno saputo farne un’arte.
Mi riferisco al cibo, naturalmente. Anche perché il
nostro treno arriva nella città emiliana che è quasi mezzogiorno, e lo stomaco
sa sempre esprimere i propri bisogni con un’assertività tale da farli passare
in testa a qualunque altro pensiero. Le trattorie storiche di Modena sono state
tutte mappate e contrassegnate con una targa che le definisce “bottega storica dell’Emilia Romagna” e
che in qualche modo garantisce per la genuinità e per la sapienza nella
lavorazione dei prodotti cucinati: è un po’ come non essere soltanto artisti,
ma essere anche iscritti ad un albo, ad una gilda di categoria.
L’istinto ha spesso la meglio su Trip Advisor, e
questo bollino ispira fiducia, per cui scegliamo più o meno a caso, la prima
trattoria dall’aria sufficientemente rustica che incontriamo sul nostro
cammino, mentre ci addentriamo nei colori pastello dei vicoli di Modena.
Il destino benevolo fa sì che questo primo incontro
sia con l’Osteria Ruggera, un locale
raccolto con le pareti dipinte di celeste e molti quadri appesi. Personalmente
sono consapevole, anche grazie allo spot pubblicitario di una delle sue
versioni commerciali più diffuse, che l’aceto balsamico si presta ad
abbinamenti arditi e sta bene più o meno con tutto, un po’ come il nero; ma che
si potesse anche usare per condire la pasta era un’idea che non mi avrebbe mai
minimamente sfiorata. Eppure – in fin dei conti credo che una delle cose
migliori che ci possa capitare nella vita sia rimanere positivamente stupiti da
qualcosa (o da qualcuno) che inizialmente non ci convinceva affatto: con le
persone tendo ad andarci parecchio cauta prima di ammetterlo, ma, con la
gramigna all’aceto balsamico che ho divorato nei coloratissimi piatti di
ceramica della Ruggera, non ho problemi a confessare che sia stato un cambio
d’idea repentino fin dal primo boccone.
Anche a Modena, come in molti altri posti, il cuore si
trova dove si erge il Duomo – un complesso maestoso ma leggiadro, fatto di
pietre dalla sfumatura avorio che al tramonto diventano cangianti e riflettono
i colori dorati e mutevoli del cielo.
Somiglia anche lui ad altre cattedrali romaniche
sparse in questa zona, con il suo grande rosone, le colonne a spirale rette da
leoni con una criniera piuttosto sfoltita, la bocca larga e sdentata ed
un’espressione che, più che feroce, sembra affaticata – del resto, portatevi
voi il peso di un portale di marmo sulla schiena per quasi mille anni. E,
sempre del resto, di leoni in Italia, nel Medioevo, non è che se ne vedessero
molti, per cui la loro fisionomia era talmente frutto di un passaparola orale e
disegnato che è già tanto che non gli avessero aggiunto delle corna o delle
ali.
Tuttavia il Duomo di Modena fa distinguere i suoi
leoni e i suoi rosoni da tutti gli altri per due motivi fondamentali. Il primo
è che, come diceva Dario Fo, si tratta di un “tempio degli uomini liberi”: non è stata la Chiesa, né nessun
potere temporale a decidere e commissionare la sua esistenza, bensì gli
abitanti di Modena come collettivo, che lo vollero come simbolo onorifico della
loro comunità. Un bell’esempio di team
building, direbbe oggi qualcuno. Soprattutto perché lo fecero per dare una
casa alle spoglie di San Geminiano,
patrono della città vissuto quattro secoli prima, che fu uno di quei rari casi
di uomini di potere che non si sentono all’altezza della carica che devono
ricoprire, e che, proprio per questo, finiscono per ricoprirla molto meglio di
chiunque altro: era stato anche vescovo della città emiliana, ma solo dopo
lunghe insistenze da parte dei suoi concittadini, perché lui non si sentiva
degno. Come tutti i santi che si rispettino, fece anche un miracolo, facendo
salire la nebbia per nascondere la città dalle orde di Attila che vagavano nei
dintorni – quindi questo stereotipo secondo cui a Modena ci sia sempre la
nebbia non è del tutto vero: quando c’è in realtà è solo San Geminiano che
tende ad essere un po’ iperprotettivo.
L’altro motivo per cui il Duomo di Modena si
distingue, è racchiuso in un’altra sua definizione, di cui però non conosco la
paternità, forse perché chi l’ha pronunciata è meno famoso di Dario Fo – ma la
trovo comunque calzante: “libro di
pietra”. L’illustre scultore Wiligelmo, che nell’anno del Signore 1099 fu
ingaggiato dal popolo modenese per addobbare la sua cattedrale in procinto di
costruzione, forse non conosceva bene la fisionomia dei leoni, ma, come detto,
non possiamo fargliene una colpa: di sicuro, però, sapeva quanto fossero
importanti i dettagli per rendere prezioso un insieme – ed oggi la cattedrale
emiliana conta diverse centinaia di curiose ed elaborate rappresentazioni su
marmo, sia all’esterno che all’interno. Bassorilievi, capitelli, inserti,
lapidi, intarsiati con scene dalla Genesi, profeti, patriarchi, ma anche draghi
e centauri: storie che i modenesi hanno voluto tramandare – dalla Bibbia, e
probabilmente anche da qualche versione molto ante litteram di “Animali
fantastici e dove trovarli”. “Dio è
nel particolare” – e questa sappiamo chi l’aveva detta: era stato Flaubert,
molti secoli dopo. Ma evidentemente anche Wiligelmo la pensava allo stesso
modo.
Insieme al Duomo, come una sorta di gemella siamese, o
di propagazione che si allunga fino al cielo, c’è la Ghirlandina, la torre campanaria che aveva lo scopo non solo di
scandire il passare del tempo, ma, grazie alla sua visuale dall’alto, anche di
avvertire dei pericoli in arrivo.
Con gli anni ormai si è un po’ perso per strada il
motivo per cui si chiami così: c’è chi sostiene che sia perché somigli alla
Giralda di Siviglia, che ne sia una sua versione più ridotta; e c’è invece chi,
molto più semplicemente, dice che derivi dalle decorazioni a forma di ghirlanda
che ci sono sulle balaustre della guglia. A me sinceramente non convincono
molto né l’una né l’altra ipotesi – il gemellaggio con Siviglia, in tempi in
cui già andare fino a Bologna poteva essere l’avventura della vita, è forse un
po’ azzardato; e, per quanto riguarda la seconda, anche sulla torre, come nel
resto della cattedrale, le decorazioni abbondano, e le ghirlande non sono
nemmeno quelle più evidenti, quindi è un po’ random l’idea che si sia deciso di chiamarla Ghirlandina e non, che
so, Centaurina o Draghetta. Ora già mi sto immaginando una storia del tipo che
“Ghirlandina” in realtà fosse il soprannome di una ragazza molto brava a
scolpire, ma che non poteva esercitare la professione perché a quei tempi alle
donne non era concesso – e che però è la reale artefice dei ghirigori gotici
dell’imponente torre. In questa mia fantasia, peraltro, mi domando che ruolo
abbia il buon Wiligelmo: se forse non si sia indebitamente appropriato dei
meriti per il lavoro della povera Ghirlandina, che magari era anche una sua
congiunta di qualche genere (sorella, moglie, cugina di terzo grado, vicina di
casa o che so io) – anche se preferisco pensare che in realtà sia stato per lei
una specie di mentore incoraggiante, e che abbia messo ufficialmente la sua
firma sull’opera solo per evitarle di finire bruciata al rogo, ma che abbia
comunque fatto in modo che il suo nome fosse imperituramente ricordato in
maniera inscindibile assieme alla sua creatura. D’altro canto non ha
importanza, perché è solo una delle tante fantasie insensate in cui ogni tanto
finisco per perdermi.
In cima alla torre c’è invece una croce del XVI
secolo, saldata ad una sfera dorata contenente le reliquie – di chi se no?
Sempre del caro vecchio San Geminiano – forse perché si spera che, messe lassù,
gli forniscano una posizione più congeniale per riuscire a replicare di nuovo
quell’utilissimo trucchetto della nebbia.
Fra le sue mura, oltre ad esserci 200 faticosi gradini
che però, come la maggior parte delle fatiche, sanno ricompensare con una spettacolare
vista a 360° (miracoli di San G. permettendo) – venivano custoditi forzieri,
atti pubblici e financo tesori.
Ora – la letteratura fantasy e non ci insegna che il
termine “tesoro” è sempre molto personale: un po’ tipo il Graal, che i crucchi
nemici di Indiana Jones si aspettano sia un calice d’oro massiccio tempestato
di diamanti, ma lui sa benissimo che non poteva essere altro che un umile
boccale di legno. Poi arriva Dan Brown che smonta tutto ulteriormente e ci dice
che nemmeno esiste, che è solo un simbolo. E – ok, quindi dovete sapere che il
tesoro modenese più prezioso, che fu custodito qui dentro, non fu il primo
litro di aceto balsamico mai prodotto, né un do di petto di Pavarotti e nemmeno
un pistone di un motore Ferrari, bensì fu un secchio di legno. Non un secchio
qualsiasi, eh: alla Secchia Rapita Tassoni dedicò addirittura un poema, e
diciamo che, come tutti i veri tesori, ha più che altro un valore affettivo. In
pratica, ai tempi di Federico II, i Modenesi erano in guerra con i Bolognesi:
questi ultimi tentarono un’incursione, ma, grazie alla super vista dalla
Ghirlandina, furono respinti ed inseguiti – come monito educativo, durante
questo inseguimento, i Modenesi rubarono come trofeo di guerra questo secchio
di legno che avevano utilizzato per abbeverarsi ad un pozzo durante il
tragitto. Prima di criticare la scelta strategica dei nostri eroi, sappiate che
in realtà i Bolognesi si sentirono oltremodo oltraggiati per questo furto:
chiesero più volte, invano, che gli venisse restituita, e, da quel che ci narra
il Tassoni, questo fu il motivo per cui decisero di continuare il conflitto.
Quindi sì – un secchio di legno conta eccome come trofeo di guerra. Va a
sapere, forse era l’unico rimasto in tutta Bologna, o magari, che so, era
l’ultimo ricordo che il generale bolognese aveva di suo nonno. Nel poema
vengono addirittura scomodati gli dei dell’Olimpo per questa disputa all’ultimo
secchio: anziché occuparsi di risolvere la fame nel mondo, Apollo & Minerva
si schierarono dalla parte dei Bolognesi, mentre Marte, Venere e Bacco,
probabilmente molto soddisfatto dell’utilizzo alternativo che fanno del mosto
d’uva da queste parti, facevano il tifo per Modena. San Geminiano non viene
citato, ma sospetto che ci abbia messo lo zampino pure lui. Dalla parte dei
Modenesi c’era nientemeno che il re Enzo, che non era il patron della Ferrari,
ma il figlio illegittimo eppure preferito dell’imperatore Federico: per lui la
vicenda non finì granché bene perché fu fatto prigioniero fino alla morte in
quel di Bologna. Ma i Modenesi in compenso riuscirono a tenersi la secchia – e
questa è la cosa più importante.
Oggi nella Torre si può ancora ammirare una copia della secchia – che, voglio dire, è un secchio di legno, ma in fin dei conti è la prova concreta che non è necessario essere Elena di Troia per causare conflitti, tutti ci possono riuscire con le giuste circostanze. E aggiungerei anche “con la giusta motivazione” che ci sta sempre bene, ma non era mia intenzione tenere un corso di coaching per casus belli. L’originale, se ci tenete, è invece conservato nel Palazzo Comunale, che si trova sempre lì di fronte al Duomo ed alla Ghirlandina, e le cui Sale Storiche sono sempre aperte e visitabili gratuitamente – cosa che ho trovato assolutamente degna di nota, dal momento che le tele ed i reperti archeologici sotto teca che le popolano farebbero invidia a tanti musei.
Quando usciamo, i colori rosati del tramonto hanno già
smesso di specchiarsi nelle pietre eburnee del Duomo per lasciare posto
all’ultima notte dell’anno. I portici di Modena sono illuminati dalle luminarie
natalizie, dalle vetrine delle botteghe artigiane, e da alcuni festoni a forma
di cuore sospesi nell’aria – non so perché, ma questo mi pare di buon auspicio
per l’anno che sta per cominciare. Questo – e questa sensazione di pace, che
hai quando fuggi per finire, quasi per caso, nel posto in cui avresti dovuto
essere.
In questo momento in cui tante cose intorno a me
sembrano cambiare, eppure al tempo stesso rimanere sempre uguali, trovare brevi
parentesi di pace e di tramonti rosa è un tesoro più prezioso di un secchio di legno.
In cui le cose che cambiano senza mai cambiare, tutti i pensieri che trattengo,
le ombre che amo più delle luci, i miei sogni impossibili, la mia incapacità di
stare ferma e il troppo tempo che passo a fantasticare anziché a fare, non mi sembrano
più sbagliati, ma semplicemente parte di me. E in cui si crea la serendipità di
lasciarsi stupire dall’aceto balsamico come condimento della pasta, o da qualcos’altro.
Per il resto – penso che ciò che davvero conta per
fare di un anno un “buon anno”, non sia tanto ciò che ti porta, ma il modo in
cui sappiamo reagirvi. Mal che vada, si può sempre provare a chiedere a San G. uno
dei suoi miracoli per smarrirsi un po’. E ritrovarsi.
Mòdena ! Un destí pendent per a mi...potser un no-cap d'any , puc gaudir-ne de visitar-la ;)
RispondiEliminaSalut !
"Credo non si possa mai sbagliare, se si sceglie di visitare una di queste città: si somigliano, per certi versi, come se fossero sorelle – ma ciascuna ha una sua personalissima declinazione, un suo spiccato talento. Sono eleganti in maniera gioviale, hanno, connaturata nella loro stessa atmosfera, una spontaneità, un’accoglienza rilassata che ti fa quasi sentire a casa, anche se non lo sei: una casa altrui, ma in cui sei il benvenuto. Un salotto buono, ma non troppo formale, in cui sedersi comodamente e godersi il piacere delle piccole cose della vita."
RispondiEliminaÈ una descrizione di queste città molto bella e, trovo, perfetta!
Il leoni... veramente! Hanno spesso delle espressioni particolari, anche buffe e tenere! Ne ricordo in particolare uno che aveva adagiato davanti al corpo un enorme bouquet per un matrimonio e sembrava disperarsi con lo sguardo "già m'hanno dato un'aria un po' sfigata, ora pure i fiorellini hanno messo!".
La nuovissima "Leggenda della ghirlandina" è adorabile.
L'importanza del secchio di legno è un dettaglio veramente insolito e curioso!
Una gita talmente ricca da far diventare il capodanno un dettaglio davvero trascurabile.
Queste città sono tutte piccoli gioiellini, e salotti confortevoli in cui fa sempre piacere accomodarsi.
EliminaI leoni delle cattedrali romaniche hanno sempre tutti quest'aria un po' melodrammatica a metà strada fra il comico ed il disperato - si somigliano un po' tutti, chissà se se li copiavano o se sono frutto tutti della stessa mano... in ogni caso avrei voluto conoscere il loro creatore :)
Tu vedi - che si impazzisce tanto dietro oro e diamanti, ma poi c'è chi si fa una guerra dietro un secchio di legno! Ed è, se vogliamo, una metafora che mi piace molto.